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Venerdì
8 Luglio
2011 |
Il bello (e il buono) della
Campania
Caserta: terra di lavoro, storia e tradizioni
Terra dei fuochi? No, a dire il vero è Terra di Lavoro. Sì,
perché era questo il nome di una vasta regione che
comprendeva anche l’attuale provincia di Caserta. È grazie a
Terra di Lavoro che la Campania meritò l’appellativo di “felix”.
Fin dal 79 d.C, fu la zona più fertile della Campania, tanto
che Plinio il Vecchio coniò l’appellativo proprio per
distinguerla dalle altre zone. Poi, nel tempo, passando per
il Medioevo fino a giungere all’epoca del Regno di Napoli,
portò con sé tutto il carico di un’area della Campania
florida e felice, che nel 1221 Federico II volle addirittura
rendere autonoma.
È questa, in sintesi, la storia di una provincia, quella di
Caserta, oggi tristemente nota per i Casalesi e per i
rifiuti chimici. Si è riusciti a distruggere un angolo di
mondo fertile e redditizio; a dissipare una benedizione
celeste. È il momento di rialzare la testa, ripartendo anche
da Caserta, così come stanno facendo molti produttori,
innovando e diversificando le proprie coltivazioni, anche
attraverso l’opera di recupero di vitigni storici.
Pallagrello, Casavecchia e Galluccio, cosa sono? Vitigni
autoctoni, i più importanti di quest’area che, per fortuna,
continua a difendersi e a regalare prodotti sublimi.
Partiamo dal Pallagrello: uno dei pochi casi di vitigno sia
a bacca bianca che rossa. Un vitigno riscoperto e
valorizzato da Ferdinando IV di Borbone, che se ne fece
impiantare una grande quantità nella sua “Vigna del
Ventaglio”. E che dire del misterioso Casavecchia? La sua
storia è sconosciuta ai più e resta ancora da scoprire.
Secondo racconti del luogo, il suo nome deriva dal fatto che
una piantina – dopo l’ecatombe della “fillossera” – sarebbe
stata trovata presso i ruderi di una vecchia casa romana.
Inoltre, altre fonti citano il casavecchia come uva che dava
corpo al famoso “trebulanum” (dalla città romana di Trebula),
uno dei vini preferiti dai romani. E il Galluccio? Qui
stiamo parlando addirittura di un vino DOC, prodotto in
cinque Comuni (Galluccio, Rocca d’Evandro, Mignano
Monte Lungo, Tora e Piccilli, Conca della Campania) dominati
dal vulcano spento di Roccamonfina, che con la sua attività
eruttiva ha reso i terreni - per struttura e composizione -
estremamente vocati alla coltivazione della vite. Che si
tratti di un regalo della natura è presto compreso dal fatto
che il disciplinare, sia per il Galluccio bianco che rosso,
prevede, nel primo caso l’uso di un 70% di uva falanghina e,
nel caso del rosso, un 70% di aglianico. Aglianico e
falanghina, quindi, i due vitigni più diffusi in Campania,
ma che in questa zona assumono profumi, odori e struttura
formidabili, tanto da meritarsi questo importante
riconoscimento.
La storia dei vini si intreccia sempre a quella della terra
in cui vengono coltivati e viceversa. La storia di Terra di
Lavoro prima e di Caserta poi ha rappresentato un periodo
formidabile per la nostra regione. E così è stato anche per
questi vini, che da migliaia di anni hanno accompagnato le
tavole dei popoli che si sono succeduti, quasi come se
volessero testimoniare la loro importanza. Poi, pian piano,
tutto è andato perduto, ma resta ancora la speranza: quella
di produttori coraggiosi che hanno voluto recuperare le
tradizioni e la storia di questi vini; quella degli
appassionati che con il loro sostegno dimostrano di amare
ancora questa terra. Una terra che, al di là di ciò che
possa pensare qualche nordico, si chiamava “di lavoro”.
Questa è la nostra storia e questo dovrà essere il nostro
futuro se vogliamo recuperare ciò che è stato perso.
Y.B.
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