Antichi mestieri

Mestieri artigianali del passato

Un tempo, a Rocca d'Evandro, frazioni comprese, si svolgevano numerosi mestieri legati alla vita quotidiana degli abitanti: contadini, fabbri, falegnami, sarti, ciabattini, tessitrici..... Gli strumenti usati per svolgere questi mestieri erano molto semplici: zappe, pale, aratri manuali o a trazione, macchina da cucire a pedale, incudini, scalpelli, martelli, pialle, seghe a mano, falcetti e vanghe. Molti di questi mestieri antichi sono andati estinguendosi nel tempo, poiché al giorno d'oggi non hanno più quella originaria importanza economica e sono stati soppiantati dall'avvento della lavorazione industriale dei prodotti agricoli e artigianali. Anticamente le donne anziane di Rocca d'Evandro lavoravano all'uncinetto, realizzando centrini e piccoli pizzi che applicavano su tovaglie e lenzuola. Erano molto brave anche a ricamare e a filare calze e maglie.

 

I carbonai

Un mestiere che sta scomparendo e che si praticava molto è quello dei carbonai. I carbonai vivevano soprattutto in baracche alle periferie dei paesi. Erano in genere intere famiglie che si dedicavano a questo mestiere. Si stabilivano sul posto e vi restavano il tempo necessario per fare il carbone, normalmente sempre diversi mesi. Sceglievano zone di montagna ricche di buon legname. Per prima cosa costruivano la capanna con terra e legna e poi Iniziavano i lavori. Si abbattevano gli alberi, si tagliavano i tronchi a pezzi e si costruivano i "catuozzi". I catuozzi erano dei mucchi di legna sistemati secondo determinati criteri con molta maestria. Al centro veniva lasciato un vuoto che fungeva da camino. Una volta acceso il "catuozzo" doveva essere alimentato due o tre volte di giorno e di notte con pezzi di legna di piccole dimensioni. A questa operazione erano addette almeno due persone per alcuni giorni. I "catuozzi" venivano ricoperti di terra e venivano fatti bruciare per circa una settimana. Alla fine si toglieva la terra e si raccoglieva il carbone, che, messo nei sacchi di tela, veniva venduto all'ingrosso. Terminato il lavoro, venivano smontate le "baracche" ed i carbonai si trasferivano in altri posti per ricominciare daccapo il lavoro. Come mezzi di trasporto della legna usavano soprattutto i muli, resistenti e adatti a muoversi nelle zone montuose. Oggi il mestiere di carbonaio è quasi del tutto scomparso. Nella nostra provincia di Caserta vi si dedica ancora qualche famiglia della zona del Matese. Ciò che ha contribuito alla scomparsa sono stati soprattutto le stufe, il riscaldamento a gasolio e a gas, anche se da qualche anno a questa parte si stanno installando in molte case i termocamini e c'è una certa richiesta di legna. A nostro avviso la scomparsa del mestiere di carbonaio può essere valutata sotto un doppio aspetto. Positivo perché evita un ulteriore disboscamento, quindi il territorio viene maggiormente difeso e tutelato. Negativo perché è una parte delle nostre radici e della nostra memoria storica che viene meno.

 

Il maniscalco

II maniscalco, che in genere era anche "ferrare" (fabbro), accendeva i carboni nella forgia a mantice. Poi legava il cavallo o il bue in modo che non potesse scalciare e prendeva la misura dello zoccolo su un ferro approssimativamente sagomato. Metteva il ferro nella forgia fino a farlo diventare bello rosso e poi lo lavorava sull'incudine a forza di martellate. Sagomato in modo da aderire perfettamente allo zoccolo, il maniscalco fissava il ferro all'unghia del cavallo per mezzo di appositi chiodi piatti a forma quadrata detti "poste".

 

La storia di un cesto

E' tanto facile con un po' di passione e tanti rametti, intrecciare un cesto. Si possono realizzare i cesti di tante forme e grandezze. La loro storia inizia così: si tagliano i "vietti" o "vigni" (i rami di salice) e si liberano della corteccia, si mettono a seccare e dopo si intrecciano. I nostri nonni facevano tanti cesti e li utilizzavano per metterci le cose della campagna o per andare al mercato a vendere i prodotti. Le nostre nonne ci mettevano anche a lievitare il pane e utilizzavano il cesto per portare il pranzo ai nostri nonni che lavoravano nei campi. Quest'ultimo era chiamato "CANISTRO".

 

"Metenza e scognatura" del grano (Mietitura e trebbiatura)

Trebbiatura del granturco a Campolongo. 22.08.1963

(Album Famiglia Carmine Monaco)

II grano, una volta maturo, si tagliava a mano "cu 'llu serricchio" o "messuro"; poi si "rignava", cioè si legava a fasci con le "casole", e si ammucchiava in mezzo al campo in modo ordinato. I mucchi si chiamavano "pignoni". Portate a casa con il carro trainato dai buoi le "regne" venivano sparse per l’"area" (aia) e battute "cu gliu vettolo" (pertica di legno di circa due metri alla cui estremità veniva attaccato, per mezzo di strisce di cuoio, un altro pezzo di legno di circa 50 cm) per separare i chicchi dalle spighe. In un secondo momento ci si facevano passare i buoi sopra. Quando si alzava il vento, il contadino con una pala faceva saltare le spighe in aria con un movimento che separava i chicchi della "cama" (pula). In seguito il grano veniva lavato, asciugato al sole e portato al mulino ad acqua un sacco per volta. Successivamente, appena dopo la guerra, il grano veniva trebbiato con la trebbia mossa da un motore a vapore. Una persona gettava le "regne" sulla trebbia dove c'era un ragazzo che tagliava le "casole" e le porgeva all'"abboccaturo" che provvedeva a infilarle nell'apposita apertura della trebbia. Poi vennero le mietitrebbie.

 

"Cal'cara" (Produzione della calce)

In un terreno scosceso si scavava una specie di pozzo (diametro di quattro o cinque metri). Con grosse pietre calcaree, trasportate in testa dalle donne, si rivestivano le pareti e si costruiva la copertura "a volta" che, come sul "catuozzo", veniva ricoperta di terra: anche qui venivano lasciate due piccole aperture. All'interno della "cal'cara" si buttava abbondante legna da bruciare; un po' per volta e per molti giorni se ne aggiungeva dell'altra. Quando le pietre erano "cotte" si spegneva il fuoco gettando dell'acqua sulla "cal'cara". Dopo alcuni giorni la "cal'cara" veniva smontata. Le pietre erano ormai diventate "càucia" (calce).

 

L'arrotino

Un  mestiere che sta scomparendo e che prima era molto praticato è quello dell'arrotino. A Rocca d'Evandro non abitava nessun arrotino e quindi la gente doveva far ricorso ad un artigiano che veniva da Cassino in bicicletta. Assicurava la sua presenza a Rocca d'Evandro due giorni alla settimana : Martedì e Mercoledì. Il Martedì c'era il mercato e quindi l'arrotino allestiva una bancarella dove, oltre ad affilare i coltelli ed altri oggetti taglienti, ne vendeva anche degli altri da lui preparati. Affilava i coltelli strusciandone due tra loro. La sera dormiva in una stalla situata in via Selvotta, in cui teneva anche un cavallo, oltre agli attrezzi per il lavoro. Il Mercoledì girava per tutto il territorio di Rocca d'Evandro su un carretto (con gli attrezzi da lavoro) trainato da un cavallo.

Girava per le case gridando : "Arrotino...!"Il suo mestiere consisteva nell'"arrotare" (affilare) i coltelli, "messeri" o "serricchi", le forbici, l'accetta, le seghe, ecc.

Tutto questo attraverso la "cavalletta", cioè una ruota di pietra, attaccata su un tavolo che si trovava sul carro, la quale ruotava spinta da un meccanismo che veniva attivato dalla spinta di due pedali.

 

Il "concia 'mbrella" (Il riparatore di ombrelli)

E' un mestiere che risale ai tempi molto antichi, oggi del tutto scomparso, a causa delle migliori condizioni economiche delle famiglie che possono permettersi di comprare con facilità gli ombrelli rispetto al passato. Erano persone che andavano in giro per i paesi, gridando: "Concia 'mbrella.. M", "Concia 'mbrella.. M". La gente interessata scendeva in strada o si recava in piazza con gli ombrelli rotti che erano stati accuratamente conservati. L'artigiano, che portava con sé tutta la "bottega" (pinze, stoffa, filo, bacchette di ferro, ecc...), procedeva in breve tempo alle riparazioni occorrenti. Il compenso per il lavoro svolto avveniva in moneta o, in qualche caso, in natura. Attorno all'artigiano si creava un capannello di persone ed era quello un modo per far circolare le notizie da un paese all'altro, per socializzare e, qualche volta, anche per "fare pettegolezzi". I "concia ‘mbrella" non avevano una vera e propria tuta da lavoro, ma vestivano con pantaloni di stoffa piuttosto resistente, spesso di colore nero (pelle di diavolo o velluto), camicie anche rattoppate e scarpe rotte.

 

La filatura

Prima della seconda guerra mondiale, l'economia di Rocca d'Evandro non era molto sviluppata, non c'erano industrie e il tenore di vita della maggior parte delle famiglie era piuttosto basso. Le fonti di reddito erano costituite soprattutto dall'agricoltura e dall'allevamento. Solo pochi, quindi, potevano permettersi di acquistare abiti già confezionati che a quei tempi erano molti costosi. Allora le donne li cucivano in casa. Però occorreva la materia prima (lana, lino, cotone ecc...). La lana si ricavava dalla tosatura delle pecore, ma bisognava pulirla e filarla. Queste operazioni venivano fatte manualmente con attrezzi semplici, come la rocca e il fuso. La rocca era un attrezzo di legno che terminava a forca. Il fuso era costituito da un pezzo di legno a forma di doppio cono con un pezzetto di ferro detto stoppino  alla punta.  Le fasi  di  lavoro  erano  le

Anziane donne del Centro Storico che filano la lana.

(Album Amalia Vitale)

seguenti: le donne aprivano la lana con le mani e la posizionavano sulla rocca. Un po' di lana veniva annodata sullo stoppino. Poi si lasciava cadere il fuso facendolo ruotare. La caduta trascinava con sé le fibre e le torceva.    

 

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Da “Rocca d’Evandro. Paesaggi, cultura, popolazione”,  Progetto realizzato dagli alunni e dai docenti della Scuola Media Statale

“Ettore Fieramosca” di Rocca d’Evandro nell’Anno Scolastico 2003/2004. Gentilmente concesso dal Prof. Benedetto Di Paola.

 

   


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