fonte:RASSEGNA STORICA DEI COMUNI , n. 72-73 GENNAIO-GIUGNO 1994

Bimestrale di studi e ricerche storiche locali , Organo ufficiale dell'Istituto di Studi Atellani.

 

LE RISAIE DI ROCCA D'EVANDRO

GIUSEPPE GABRIELI

 

Parte I

 

Antichissima è la coltura del riso ed i primi a coltivarlo pare che siano stati i cinesi. Un’ordinanza dell’imperatore Chin-Nong, vissuto 2800 anni a.C. imponeva a tutta la famiglia reale di presenziare alla semina fino ad allora diretta solamente da lui. Cerimonia importantissima, dunque, poiché un buon raccolto assicurava il cibo a tutto il Paese.
Nei tempi più lontani poche popolazioni conoscevano il riso. Gli ebrei dovevano ignorarlo poiché nella Bibbia non lo nominano mai.
I Romani lo importavano soltanto, come molti altri cereali, dalle colonie, usandolo per fare dolciumi e alcune pietanze dolci confezionate da quegli ex schiavi orientali che divennero i più abili e raffinati cuochi delle case patrizie e imperiali.
In Giappone l’ora dei tre pasti principali era ed è conosciuta con il termine gohan che letteralmente vuol dire «onorevole riso». Fin dall’antichità, in Giappone, questo cereale costituisce la dieta base e da esso si ricava anche il saké, una bevanda spiritosa che rallegra e delizia da secoli gli spiriti dei commensali. In Occidente, il primo riso importato sarebbe giunto dalle valli dell’Indo e dell’Eufrate, dopo le conquiste di Alessandro Magno. La Spagna avrebbe imparato a coltivare riso per prima, nell’VIII secolo, dopo l’invasione araba. Gli stessi invasori insegneranno più tardi, la risicoltura anche alla Sicilia. A Napoli, il governo aragonese, introducendo molte usanze spagnole, farà impiantare nel XV secolo, le prime risaie italiane. La coltivazione del riso salirà così, a poco a poco, anche verso il Nord Italia, sostando prima nelle pianure di Pisa e poi in quelle padane, dove, seguita e incoraggiata dal duca Galeazzo Maria Sforza, si estenderà per oltre 5000 ettari.
Favorite dai naturali terreni paludosi, le risaie appariranno presto anche nell’Emilia, nel Veneto e nel Piemonte, ostacolate qui dagli igienisti, che, vedendo sorgere vasti acquitrini, temeranno, forse non a torto, l’aumento della malaria (1).
Quegli igienisti non avevano tutti i torti perché molto presto cominciarono a manifestarsi i malefici effetti di quelle colture.
E ci riferiamo anche alla macerazione del lino e della canapa che è certamente anteriore rispetto alla risicoltura. Ogni Stato provvide a regolamentare tale macerazione mediante bandi, leggi e decreti. La prima legge emanata nel Regno di Napoli risale a Federico II, e precisamente all’anno 1220. Questa legge stabiliva che per macerare il lino e la canapa, bisognava tenersi ad un miglio dai centri abitati e dalle strade consolari. Dopo questa legge, altre, nei secoli successivi, ordinavano di tenere pulite le acque dei Regi Lagni e di non intaccare l’integrità delle sponde, ma per quanto attiene la coltura del riso non ne troviamo nessuna prima del 1763.
La prammatica del 16 luglio 1763 prescriveva che la coltura del riso e le macerazioni si praticassero ad una distanza non inferiore a due miglia dai centri abitati.
La legge però, prevedeva delle eccezioni e l’articolo sesto si prestava alle più svariate interpretazioni e soprattutto ai cavilli, agli intrighi ed alle speculazioni.
Tale articolo prescriveva che la coltura del riso potesse praticarsi ad una distanza inferiore alle due miglia qualora vi fosse stata «interposta» una montagna, o una vallata, o un largo fiume.
Forti di quest’articolo, i coltivatori riuscivano ad evitare il provvedimento di «estirpazione», guadagnandosi la complicità degli architetti incaricati della perizia.
Così, a Rocca d'Evandro, il fiume Peccia, per gli eletti del comune, era un misero ruscello mentre invece diventava un fiume di larga portata per l’architetto incaricato della verifica.
Le montagne, come i boschi e come i fiumi, secondo le concezioni eziologiche del tempo, impedivano alle esalazioni miasmatiche di raggiungere i centri abitati. In maniera analoga si comportava una larga vallata e, per finire, si poteva autorizzare la risaia, anche in difetto della distanza legale, qualora in quella zona i venti soffiassero in direzione contraria all’abitato e quindi impossibilitati a trasportare il miasma.
Tutto ciò era frutto di secolari osservazioni confermate oggi che conosciamo tutto sulla zanzara la quale non ama i luoghi elevati e ventosi.
La zanzara trova nella risaia le condizioni ideali per compiere il suo ciclo evolutivo: acqua stagnante, calda e riparo dai venti. Nelle risaie o lungo le sponde dei ruscelli deponevano le uova che, indisturbate, si schiudevano e raggiungevano, attraverso le varie fasi, la forma adulta. E’ noto come, nei tempi andati, alle carestie si associassero le epidemie, ovviamente malariche, dovute ad assenza di piogge che frequenti ed abbondanti provvedevano ad operare un salutare lavacro.
La teoria miasmatica ebbe vita lunghissima cioè fino a quando Laveran, nel 1870, scoprì finalmente che l’agente della malaria era la zanzara. La scoperta successiva dei microbi fece sì che il miasma sparisse del tutto e che ad ogni stato morboso si attribuisse l’esatto agente eziologico.
Tornando ai regolamenti sanitari, possiamo concludere che furono soltanto due le leggi emanate per disciplinare quella materia e cioè quella del 1220 per le macerazioni e quella del 1763 per le risaie.
Abbiamo iniziato il presente lavoro, riprendendo un articolo pubblicato dalla rivista Historia del 1985 che attribuisce agli Aragonesi l’istituzione delle risaie. L’attribuzione ci sembra azzardata dato che bisogna aspettare trecento anni per trovare una legge che regoli tale coltura.
Nel rogito notarile del 1713, col quale i comuni di Cervaro, S. Pietro Infine e S. Vittore in Terra di Lavoro, versavano al duca di Mignano la somma di 3000 ducati per ottenere la cessazione delle risaie, è detto testualmente che in quei tempi non esisteva alcuna misura di polizia sanitaria.
Le leggi sarde contemplavano che in caso di contravvenzione, gli Intendenti erano investiti dell’autorità necessaria per giudicare sommariamente ... «privativamente ad ogni altro giudice, anche magistrato». Con ciò non intendiamo affermare che le leggi sarde fossero perfette; infatti nella Nuova Enciclopedia Popolare (ed. Pomba Torino 1847) si legge: - i provvedimenti emanati in vari tempi dal Governo piemontese ... vennero finora concultati con iscaltrezze, con raggiri e sotto vari pretesti -.
Infatti il 25 agosto del 1835, Carlo Alberto si rivolgeva al Magistrato Generale di Sanità perché preparasse «un regolamento generale sovra questa importante materia».
Possiamo però tranquillamente asserire che alle leggi piemontesi non faceva difetto la decisione e che, a differenza di quelle napoletane non lasciavano varchi tra le maglie dei vari articoli.
A Napoli la sentenza del Regio Giudice, oltre alla possibilità di svariati appelli, comminava una pena detentiva di pochi giorni ed un’ammenda di pochi carlini.
I sovrani del Piemonte si erano preoccupati fin dal primo momento di regolare la semina del riso emanando bandi fin dal 1608 e ripetendoli periodicamente onde combattere gli abusi.
Nel 1710 furono perfino stabiliti quei terreni della provincia di Biella e Vercelli che dovevano adirsi a risaia e se ne fece «un ricavo ristretto» onde evitare contestazioni. Con questo sistema, di fronte ad una risaia sospetta di abusivismo, era possibile consultare il ricavo e decidere con piena tranquillità.
In caso di provato abusivismo, in conformità degli editti del 1608, 1656, 1663, e 1728, venivano colpiti i coltivatori abusivi con il sequestro dell’intero raccolto e l’ammenda di 300 scudi d’oro.
Non serviva dare in fitto la risaia perché la legge colpiva il padrone, il fittavolo, il bovaro, il massaro, il lavoratore e in definitiva «chiunque in qualunque modo travagliasse attorno alle risiere».
Quando ai padroni delle acque, sia che ne disponessero per loro uso, sia che le concedessero in fitto, veniva comminato, in caso di abusiva coltivazione, il sequestro delle acque stesse, con devoluzione al Regio Fisco.
Eppure, con quelle misure così energiche, nel 1835, erano ancora alla ricerca di qualcosa di più efficiente. E’ facile immaginare cosa succedesse nel Regno di Napoli, nello stesso periodo, tenendo presenti l’ambiguità delle leggi e la blandizie delle pene.
La legge del 1763 prescriveva la distanza di due miglia dall’abitato, mentre quelle piemontesi contemplavano quattro miglia per la città di Vercelli. A questa città, «per effetto di grazia speciale», veniva ridotta a quattro la distanza di miglia sei, fissata con l’editto del 1710. Tale grazia, però, non si estendeva ai borghi ed ai luoghi di detta provincia e di quella di Biella per i quali la distanza era fissata in 300 trabucchi (2), a partire dall’ ultima casa. Si parla di casa e non di abitato e si presume che tale legge si applicasse anche in caso di masserie isolate. Al sud, invece, l’obbligo della distanza esisteva sola quando il luogo fosse stato abitato da «un competente numero di persone». Cosa s’intendesse per «competente» non è chiaro, ma rappresentava un invito alla cavillosità, purtroppo nata, dei paglietti napoletani.
Non abbiamo trovato, nei regolamenti sardi almeno fino al 1835, nessun accenno alle eccezioni derivanti da eventuali montagne, valli, fiumi o venti.
Bisogna ricordare, ad onor del vero, che il Supremo Magistrato di Salute di Napoli chiedeva, il 22 ottobre del 1813, che la coltura del riso si praticasse ad una distanza non inferiore) alle cinque miglia «come praticata nel resto dell’Italia». Chiedeva ancora che si restringesse nei giusti limiti, ma lasciava in piedi il famoso articolo sei, cioè quello dei possibili cavilli, «commendandolo alla saviezza dei signori Intendenti». Queste proposte non trovarono approvazione da parte degli organi competenti e la prammatica del 1763 rimase ancora in piedi, morendo insieme alle risaie. Nel 1820 la distanza fu portata a miglia tre ma solo in Sicilia.
L’articolo sette della citata prammatica viveva di esclusiva vita contemplativa. Prescriveva quell’articolo che una risaia dovesse abolirsi quando particolari condizioni topografiche la aves­sero richiesto.
Abbiamo seguito, attraverso i documenti del Supremo Magistrato, tutte le vicende inerenti alla macerazione ed alla risicoltura dal 1792 al 1862 e possiamo affermare che in settant’anni, malgrado tante denunzie, l’articolo sette fu applicato soltanto un paio di volte (3).
I paesi, ormai, si spopolavano; anno dietro anno la popolazione veniva decimata dalle varie forme malariche e soprattutto dalle forme perniciose ed intorno al 1840 parecchie risaie furono soppresse. Al primo rivolgimento politico, però, i contadini si affrettavano a seminare il riso.
Ed ecco un rapporto da Fossaceca, in Abruzzo, del 1848, che recita testualmente: «Non le sentenze di quel Regio Giudice, non le pene di polizia, han frenato il mal talento dei coloni, e lo hanno invece rinvigorito e reso baldanzoso. La semina si è continuata, si esegue giornalmente, i galantuomini sono avviliti, perché temono il popolaccio insolente, il sindaco, il decurionato, tutti sono divenuti incapaci di agire, di opporsi alla corrente minacciosa che li sovrasta, e quel che aggiunge spavento a quadro sì luttuoso, consiste nell’attuale condizione della salute pubblica per nulla soddisfacente, anzi triste e desolante di Fossaceca. L’epidemia del 1848 non è estinta e quella del 1849 si prepara maggiore; quella popolazione sarà dimezzata e forse annientata; l’amministrazione comunale sconvolta, i danni di quei luoghi e dei vicini incalcolabili. Io non ho pace nel considerare queste cose, non ho riposo se non vedo che vi si appresti riparo».
Il feudatario, conte Genoini, dava in fitto le acque del fiume. Le leggi napoletane avevano la pretesa di conciliare il diritto di proprietà con la salvaguardia della salute pubblica. Ciò era possibile solo in teoria, perciò i signorotti forti di questa assurda contraddizione, continuavano a sfidare la legge e ad attentare alla salute e alla vita degl’infelici contadini.
Indubbiamente la risicoltura rendeva molto più di qualsiasi altra coltura ragion per cui quando la palude non c’era, la si creava.
Non mancarono funzionari onesti che si preoccuparono di segnalare alle competenti autorità il rischio che correvano le popolazioni prossime alle risaie e nel 1805, l’Intendente di Terama comunicava che nelle adiacenze di Giulia, Mosciano ed altri centri, la popolazione rurale era completamente scomparsa.
L’autorità sanitaria invece di preoccuparsi della pubblica salute, discettava sul vantaggio che sarebbe venuto a mancare all’industria e al commercio ... quanto ai contadini «abituati a vivere in un’atmosfera malsana, potevano considerarsi immuni da ulteriori malanni».
Al parere dei grandi luminari faceva eco quello dei medici dei vari paesi, dove si coltivava il riso. La deputazione sanitaria di Tufillo in Calabria, teneva a precisare che quella certa «tinta di pallore» che presentavano i naturali del luogo non era assolutamente dovuta ad influenze miasmatiche, bensì alla fame.
Dato un colore alla fame (con buona grazia della malaria cronica), i medici si peritavano di chiedere che le colture potessero continuare onde evitare che i contadini restassero senza mezzi di sussistenza.
Non stavano certo meglio i contadini piemontesi: - ... i risaiuoli sono per lo più di statura piccola, di gracile corporatura, di lurido colorito. Il loro volto anzi tempo increspato dimostra fin dall’età virile il triste aspetto della vecchiezza, la bocca sdentata per le frequenti odontalgie o per lo scorbuto, il ventre tumido, le estremità inferiori tumide e con macchie livide, le superiori esili ed emaciate ... - (4).
Ormai tanta gente corrotta aveva fatto sì che la piaga dilagasse. A Fossaceca, fra i proprietari di risaie c’erano funzionari dell’Intendenza e l’architetto, incaricato della perizia, informava che nella pianura del Sangro c’erano soltanto sette o otto masserie, mentre, in realtà ce n’erano più di cinquanta.
Ai sindaci veniva demandato il compito della sorveglianza, ma molto spesso, come per esempio a Giugliano, i principali coltivatori erano il sindaco e gli eletti.
I proprietari non avevano alcun interesse a prosciugare le terre per poi praticare una coltura diversa del riso e perciò meno redditizia.
Ai contadini, dunque, non rimaneva che cercare nella palude i mezzi di sostentamento. Essi conoscevano bene i funesti effetti del miasma, ma, per un amaro e mostruoso paradosso, rischiavano di morire per vivere.
E’ naturale che si opponessero con tutti i mezzi a loro disposizione alle misure proibitive e chiedevano che li si lasciasse continuare per potere «scampare la morte, che la fame può caggionarli».
La commissione sanitaria, inviata a Fossaceca nel 1848, fu costretta, a furor di popolo, a concedere il permesso che fu salutato con luminarie, cortei e grida di «Viva il Re».
I decurionati erano sempre pronti ad avallare le richieste dei contadini, ma non si può affrettatamente concludere che fossero in mala fede. Abbiamo visto che la palude regnava sovrana e che dove non c’era si creava ... la bonifica non era possibile sia per la spesa che i comuni non erano in grado di affrontare sia per la pertinace resistenza di coloro che dalla palude traevano larghi guadagni. In molti casi, infine era vero che la soppressione avrebbe provocato la disoccupazione di tutti quei «villani» che si «presenta(va)no come scheletri di morte vicini al totale deperimento».
I provvedimenti venivano sistematicamente disattesi sia dai proprietari che dai contadini. A Castrocucco, infatti, la semina era stata proibita nel 1832 e nel 1836 senza alcun risultato.
Nel 1842 una violenta epidemia decimò le popolazioni circostanti e finalmente il Supremo Magistrato di Salute si decise ad infliggere al barone una multa esemplare.
A Castrocucco non si seminò più il riso ... ma cosa successe dopo? Quel territorio si presentava come un’immensa e selvaggia landa, con alcune piantine di riso spontaneamente riprodottesi e occhieggianti qui e lì. Una immensa palude impraticabile al punto da correre il rischio di affondarci dentro, con una fitta e lussureggiante vegetazione di erbe selvatiche, ridotta a pascolo per i bufali. Era così vasta quella palude che non era possibile estirpare le «ceppaie» e incanalare le acque nel vicino fiume Torbido «senza la benefica mano del Governo». Era finita la risaia, ma non era finita la malaria, quanto ai contadini, se prima morivano per vivere, dopo non rimaneva loro che morire soltanto ... di fame e di febbre (5).

(continua al prossimo numero)

 

 

Note:
(1) L. RIDOLFI VIGANO’, E quei provvidenziali chicchi sconfissero la fame in «Historia» n. 326, a. 1985.
(2) Antica unità di misura di lunghezza usata in Italia prima dell’adozione del sistema metrico decimale, equivalente a 3,086 o 2,64 m. a seconda delle regioni. In Vocabolario illustrato della lingua italiana di G. DEVOTO, G. C. OLII, Milano, 1984.
(3) ... reazioni popolari all’accrescersi delle superficie adibite alla coltura del riso che «nel 1711 perirono per detta pestifera piantagione da circa 650 persone, ed altre 5754 se ne infermarono anche con la perdita di 800 animali ... le università e i maggiorenti locali adirono i tribunali che poi proibirono (Provisione del 1722) la continuazione di tali colture, in P. EBNER, Storia di un feudo del mezzogiorno, La Baronia di Novi, Roma 1973.
(4) Nuova Enciclopedia Popolare, Torino, Pomba editore, 1847.
(5) ... un tratto di terreno assai esteso alle falde dei monti, a breve distanza da Torino ... era coltivato a riso ... un Duca di Savoia ordinò la distruzione ... una piccola parte di quel suolo venne ridotta a bosco, tutto il rimanente è rimasto incolto ... nudo e spoglio d’ogni vegetazione, in parte coperto di eriche ed in parte ridotto a macilente e palustri praterie ... in «Nuova Enciclopedia», op. cit.

 

fonte:RASSEGNA STORICA DEI COMUNI , n. 72-73 GENNAIO-GIUGNO 1994

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(continuazione dal numero 72-73 anno XX, 1994)

 

LE RISAIE DI ROCCA D'EVANDRO

GIUSEPPE GABRIELI

 

Parte II

 

Nel piano brullo, interminato, stagna / plumbea palude ... / lividi aspetti, misere parvenze; / lungi, la mandra di lunate corna / il cavalcante buttero compone, / pungendo a tergo. / Ultimo un colpo da la caccia s'ode / mentre la notte desolata cala. / Batte la febbre all'umido capanno: / la morte passa.
Così Baccelli cantava l'olocausto di quei poveretti che inesorabile la palude stroncava.
Nel 1820 si credette aver trovato finalmente una soluzione per quell'annoso problema, ossia la macchina di Christian e il riso cinese, ossia riso a secco.
Non era più necessario mettere a marcire la canapa e il lino, bastava immetterli dentro quella macchina per ottenere lo stesso risultato. Quanto al riso cinese, veniva coltivato come una normale pianta, senza bisogno cioè dell'acqua stagnante come il riso «acquaiuolo».
Quanto alla macchina di Christian si rilevò un grosso fallimento (6). La semina del riso cinese non era una novità; era stata sperimentata in Piemonte nel 1705 con risultati deludenti (7).
Tornarono le risaie a Rocca d'Evandro, Galluccio, S. Vittore ossia in tutti quei posti che tanti anni prima avevano versato una notevole somma al duca di Mignano perché smettesse quella letale coltura.
E il marchese Cedronio, sindaco di Rocca d'Evandro, fa la cronistoria di quegli avvenimenti.
Nel 1831, più per curiosità che per guadagno, a Rocca d'Evandro, sorsero delle risaie per sperimentare il riso cinese.
Pochi pezzi di terra dispersi in larga campagna non cagionarono alcuna apprensione, anche perché quel tipo di coltura non poteva cagionarne. E, come era naturale, dalla coltura del riso cinese si passò a quella del riso normale e ben presto la salute pubblica cominciò a risentirne. Cominciarono i reclami e il marchese Cedronio, che era allora consigliere provinciale, fu incaricato di riferire all'Intendente. Il rapporto non lasciava adito a dubbi e il provvedimento di sospensione non si fece attendere ... ma non si fece attendere nemmeno il provvedimento di sospensione della sospensione stessa.
Il tutto rimase fermo per qualche tempo, poi l'Intendente inviò sul posto l'architetto Giuliani che non poteva certo confutare il rapporto Cedronio, ma trovò «qual nuovo Eolo» certi «venti divergenti» che mettevano al sicuro dal miasma i comuni circostanti.
La vertenza restò assopita e si svegliarono invece i coltivatori: i fratelli Ciaraldi estesero enormemente la loro risaia e sul loro esempio, alcuni cittadini del vicino comune di Mignano crearono altre risaie.
La risaia Ciaraldi dai 4 tomoli del 1833, epoca della perizia Giuliani, era passata a tomoli 50 nel 1835 e 120 nel 1837; è naturale che non poteva trattarsi di riso cinese dato che 120 tomoli di terra non potevano innaffiarsi alla stregua di un orticello.
Come distanza poi, non era affatto legale: situata «nella gola di angusto canale fra il colle di Vandra e il Monte Difensola, ossia Moscuso» distava un miglio e un quarto da Rocca d'Evandro, mezzo miglio dalle «contrade popolose dei Colli, della Pecce, di Vandra, meno di due miglia da S. Ambrogio»... nonché da Mortola, S. Pietro in Curolis, Caspoli, Cocuruzzo ecc.
Unanimi i paesi insorsero contro le risaie: da S. Pietro Infine si scriveva: « Nel tempo delle messe, onde accedere alla ricolta, tutti quasi gli abitanti di questo Comune pernottano nella pianura. Costoro per assoluta necessità si avvicinano alle risaie ed hanno diritto di essere garentiti dai loro pestiferi influssi». Sempre nello stesso periodo (1838) il procuratore di Cervaro scriveva: «Ora non vorrà aggravare la sua coscienza di altre 200 persone e più, secondo le tergiversazioni e i cavilli di quegli uomini insensibili alle voci dell'umanità».
Sette lunghi anni si trascinò la contesa: i Ciaraldi, all'ombra dell'art. 6, riuscivano ad allontanare qualsiasi provvedimento, mentre, all'ombra dell'art. 6, la gente continuava a morire.
Inoltrarono certificati, graziosamente rilasciati da medici condotti di paesi vicini, esclusi, ovviamente, quelli dei paesi interessati, ad eccezione dei medici condotti di Sessa e di Toraldo, zone altamente malariche a causa del pantano demaniale, una vasta estensione di quasi 4000 moggia di terra coperti d'acqua.
Ma con la storia dei venti, delle montagne ecc. non è facile dare un giudizio imparziale sul comportamento dei medici ... a cominciare dall'alta magistratura sanitaria.
Per i medici, poi, le cose cambiavano poco; infatti essi certificavano trattarsi di malattie ormai di casa ... la malaria era endemica da sempre e non era facile stabilire quale fosse l'incidenza delle risaie.
Purtroppo era questa la situazione nel distretto di Sora e il dottor Morelli di Rocca d'Evandro così scriveva alle superiori autorità: - L'intrigo prevalea contro la giustizia e a danno della pubblica salute ... ero incerto se stringere la penna o no, ma il male progredisce a passi giganti ... già Mignano, mitando Rocca d'Evandro, ha formato risaie e se voi, rispettabili signori, non impegnerete tutto il vostro zelo a reprimere questo male già grande benché nascente, la Provincia che rappresentate sarà tra non molto ridotta in palude e gli abitanti presenteranno aspetto di morte pria di morire. La spopolazione sarà il lacrimevole effetto -.
Nel frattempo gli abitanti di Rocca d'Evandro avevano ripreso a macerare il lino e la canapa nel fosso dell'Isola, lo stesso avveniva a Cervaro, a mezzo miglio dall'abitato, «segnatamente nei mesi di luglio, agosto e settembre».
- A S. Vittore le vasche erano situate a 1/4 di miglio dall'abitato in maniera tale da circondarlo: ce n'erano 8 a destra e 7 a sinistra della strada che da Napoli portava a S. Germano.
Un discorso come quello del dottor Morelli era destinato a cadere nel nulla, come la statistica che, nel 1837, il comune di Rocca d'Evandro inoltrava all'alto consesso sanitario.
 

ANNO

NATI

MORTI

1822

54

41

1823

67

33

1824

48

55

1825

56

47

1826

64

31

1827

66

63

1828

70

47

1829

69

49

1830

61

46

1831

61

47

1832

47

65

1833

53

76

1834

58

63

1835

54

68

1836

79

29

1837

42

141

 

In calce alla statistica inoltrata il 10 marzo del 1838, il sindaco annotava: - la morte ha cominciato a incrudelire in questo tenimento dopo lo stabilimento delle nuove risaie che fu il 1831 ed ha imperversato maggiormente nelle contrade più prossime alle medesime -.
In quell'anno Rocca d'Evandro contava 1597 abitanti e caso più unico che raro, la statistica presenta l'incremento più forte nelle nascite nel 1836, anno della prima invasione colerica. L'enorme mortalità del 1837 viene spiegata dalla recidiva colerica.
Dal canto loro, i sindaci di Cervaro, S. Vittore e S. Pietro Infine facevano sapere che nei loro paesi la mortalità era di 8 persone al giorno.
Ma l'alto consesso sanitario continuava a dare prova d'insipienza: sarebbe bastata l'esperienza del 1682, del 1713, del 1793, cioè gli anni in cui le risaie furono soppresse a causa delle letali conseguenze, sarebbe bastato l'esempio di Presenzano, che da 3000 abitanti ne contava solo 1500, per prendere l'attesa, drastica misura.
Ma nessuno ardiva affrontare il problema e si preferiva imboccare le scorciatoie come quella di obbligare la provincia di Terra di Lavoro ad un aumento del dazio fondiario, nella speranza che si decidesse a distruggere i ristagni che natura ed uomini avevano generato.
Tanti anni prima, il protomedico Ronchi si era recato a Suio per «esaminare le acque termali» rese «di pubblica ragione» dal dottor Monaco e nel suo rapporto faceva presente che non era possibile accedere alle «salutari proprietà di quelle acque» a causa dei miasmi che si levavano dalle risaie di Galluccio.
L'articolo 4 prevedeva che alle vedute di utilità generale dovevano assolutamente cedere tutte le considerazioni di particolare vantaggio, soprattutto quando era in gioco la salute pubblica.
La distanza legale aveva, ormai, un valore puramente retorico sosteneva l'avv. Galanti, dato che né monti, né valli, né venti riuscivano a garantire la salute pubblica ... «Volgetevi, signori, a quel volume immenso di reclami, di accusazioni, di lamenti dé sindaci decurionati, eletti, capi urbani, parrochi, a quelle denunce di morte e di morte orribilmente accresciute da che esiste quella risaia». Ed alle competenti autorità chiedeva di mettere da parte le elucubrazioni dotte, quanto dannose e di «decidere dagli effetti». «Si muore in quei contorni, ed orribilmente si muore: le popolazioni un tempo sì floride oggi non si offrono che sotto l'aspetto di cadaveri, qué paesi un di così ridenti per amenità di sito, oggi si presentano all'occhio come i lugentes campi del poeta mantovano». I possessori di risaie «non sentivano alcun rossore per le tante pubbliche accusazioni di essere autori di morte», né si preoccupavano di fronte «all'ultima invasione di tifo maligno sviluppato per quella mortifera coltura, che produsse tanto allarme da far temere il ritorno del colera morbus».
Non contava nemmeno la precisa proibizione di coltivare il riso contenuta «nello strumento di concessione di acqua fatta dal monastero di Montecassino, Barone allora di qué luoghi, a Ciaraldi padre nel 1803» ... «Che possa esso, Don Stefano, suoi eredi e successori legittimi avvalersi di dette acque per innaffiare il territorio suddetto, far orti, peschiere ed altro esclusa bensì la semina dé risi, le quali producono infezione di aere à vicino abitanti ed alle popolazioni di paesi intorno. E nel caso esso Don Stefano, suoi eredi e successori introdurre volessero in ogni futuro tempo, le risiere in detto territorio, chiamato Magnavacca, o s'introducessero da altri possesori dé territori posti di sotto a Magnavacca, in ciascun di detti casi: sia lecito ad esso Monastero di propria autorità e senza decreto di giudice, diroccare il sasso e canale suddetto, di negare ed impedire al detto Ciaraldi e suoi eredi e successori legittimi la conduttiera dell'acqua nel suo territorio e l'inaffiamento del medesimo e la formazione delle risiere, perché così specialmente convenuto, e perché senza di un tal patto non si sarebbe accordato il permesso suddetto».
La commissione, inviata a Rocca d'Evandro nel 1839, concludeva che le risaie Ciaraldi non erano nocive ed informava che non si era «esaminato il parroco e il medico perché il paese (era) diviso in caldi partiti».
Ed ecco, nel 1840, la spaventosa epidemia che, partita da Mignano, invadeva quasi totalmente la provincia di Terra di Lavoro.
Cambiavano, finalmente, anche le vedute del supremo consesso medico il quale si decideva a riconoscere che la «coltivazione del riso è essenzialmente nociva all'umana salute» anche se tale coltivazione «torna(va) a grandissima utilità alla pubblica economia». ... Noi abbiamo veduto i miserabili coltivatori delle risaie del Piemonte e del Milanese. La coltivazione del riso è vantaggiosa se essa fa la prosperità degli abitanti principalmente dei paesi che l'hanno introdotta, spande, la desolazione nella massa del popolo che resta menomato in ciascun anno e che non fa trascorrere l'esistenza di ciascun individuo oltre i 40 anni. Questa stessa coltura produce analoghi effetti negli Stati Uniti di America, nella Carolina. Onde conciliare entrambi questi interessi che reciprocamente si combattono, la coltivazione del riso fu severamente respinta dall'interno e dalle mura delle città e dall'altro, malgrado del nocumento che essa arreca agli individui che v'attendono, fu autorizzata nello Stato. Tutti i Governi, quale con maggiore, quale con minore previdenza, tracciano, siffatta linea di condotta e perché il doppio fine, per quanto è dato all'umana previdenza, venisse raggiunto accuratamente si prescrivessero misure preservatrive le più energiche onde impedire alla cagione morbosa che dalla risiera si svolge, di oltrepassare le barriere e d'irrompere nelle comuni. La quali misure preservative, in appositi regolamenti sanitari depositate, presero vigore e forza di legge».
Sembrerebbe quasi un mea culpa, ma l'alto consesso tiene a precisare «con l'autorità di Londe ... che il miasma per virtù di una gravità, non inalzarsi nello stato regolare nelle altre regioni dell'atmosfera».
Torniamo a ripetere che insipienza o malafede non possono ravvisarsi nell'alto consesso che si appella ad una falsa concezione eziologica.
Forse, anzi senza forse, la ravvisiamo nell'operato di tanti architetti, incaricati delle perizie, i quali, a scudo di Rocca d'Evandro, pongono il fiume Peccia e gran parte dei colli Pescito, Trocchia e S. Leonardo ... ragion per cui «i popoli sottomessi alla triste influenza, po(teva)no ammalarsi per virtù di cagioni non miasmatiche».
Il prof. De Renzi, inviato sul posto, scriveva una memoria che val la pena di riportare nei suoi passi salienti: - Quattro giogaje di montagne poste verso l'estremità sud-est del distretto di Sora, tra i suoi confini con quei di Piedimonte, Caserta, e di Gaeta, chiudono un'ampia vallata per ove scorre il Garigliano, ed alla quale aprono altre Valli minori. Il terreno non è piano ed eguale, ma per ovunque è intersecato da poggi da colli di monticelli, fra i quali formansi diverse vallette dove scorrono vari rivoli, che riunendosi in fiumicelli, tutti portano il tributo delle loro acque al Garigliano. Alcuni di quei rivoletti venendo dalle falde settentrionali dei monti di Roccamonfina, si riuniscono in un solo alveo poco dopo Mignano, col nome di Peccia, la quale si dirige verso occidente ed ingrossata dai rivi di S. Vittore e di S. Pietro Infine, volgendo a mezzogiorno va ad incontrare il Garigliano nel tenimento di Rocca d'Evandro. Al declivio dei monti e sulle alture minori sono diversi paeselli, il primo dé quali è Mignano che s'incontra lungo la valle percorsa dalla Regia Strada che dirigesi verso Sora, e quindi alle falde dei monti settentrionali stanno S. Pietro Infine, S. Vittore e Cervaro a dritta della strada indicata, ed a sinistra verso il sud-ovest vedesi Rocca d'Evandro, alla quale sono riuniti due miseri villaggi, l'uno detto Camino sui monti che lo dividono da Mignano, l'altro a mezzodì detto Cocuruzzo a sinistra del Garigliano. Verso occidente evvi S. Angelo in Theodice e più in là Pignataro, i tenimenti dei quali sono dal Garigliano divisi da quelli di S. Giorgio e di S. Apollinare, e lo stesso fiume diparte quello di Rocca d'Evandro dagli altri di S. Ambrogio e di S. Andrea. I chini dei monti e dei colli sono vestiti di piante, e laddove presso la Peccia, ed in seguito presso il Garigliano, ai piè delle colline i terreni si vanno allargando in piccioli piani, questi in generale sono o inumiditi da fre­quenti sorgive, o acconci ad essere inaffiati da rivi o dai fiumi, cosicché tutto concorre a rendere in quel vasto spazio umida e greve l'atmosfera, e disposta a sentire tutte le vicende delle meteore.
Tutt'i paeselli nominati sono chi più chi meno abitati di contadini o poveri a poco agiati dei quali il maggior numero vive di rustici lavori o di piccole industrie di animali che nell'inverno soprattutto hanno con gli uomini comune dimora, e quindi le contrade intere divengono vaste stalle. I paesi sono per l'ordinario composti di piccoli vicoletti, tortuosi, sudici e pieni di archi, con casupole ingombre e senz'aria, eccetto pochi luoghi dei comuni maggiori come quello di Cervaro. Le strade, specialmente quelle di Mignano, sono ripiene di ammassi di letame, e tutte rose, non lastricate, e per ovunque ristagna un'acqua fetida prodotto delle evacuazioni degli animali immondi, o dell'acqua piovana che filtra dai letamai. In­somma alcuni punti di tale paesi somigliano ad una fogna in cui formicolano tutte le specie di animali misti con uomini mi­serabili e cenciosi ... Alessandro Bianco di Saint Joroz, uffi­ciale piemontese, venuto a contatto nel 1860 con le condizioni di vita dei nostri contadini, scrisse esser le nostre terre un lembo dell'Africa selvaggia.
Fino a che punto potesse permettersi un simile giudizio, lo apprendiamo dalla Nuova Enciclopedia Popolare, edita nel suo paese da Pomba nel 1847, la quale recita testualmente: ... I Monferrini ogni anno all'epoca della raccolta si recano a stuolo nel Vercellese d'onde ricavano gran parte della loro sussistenza ... reduci (poi) ai loro colli, portano ordinariamente seco loro, col ben guadagnato riso, la squallida febbre. Misero il salario ... 80 cent. dalla metà di marzo sino alla metà di settembre, d'indi sino alla metà di novembre cent. 60 da quest'epoca sino alla metà di marzo cent. 40! ... bene spesso li oltraggiano con mali trattamenti, con stramazzi, con ingiuste esigenze e col continuo disprezzo ... Avvilito, coperto di stracci, estenuato di forze, è costretto a faticare, ora esposto ai raggi cocenti del sole, ora ludibrio dei venti, delle nebbie, della pioggia, immerso metà le gambe nella fanghiglia ... molte volte obbligato eziando a faticare di notte sull'aia a cielo scoperto. In seno alla famiglia dell'indigente risaiuolo la miseria si mostra in tutta la sua laidezza; egli è obbligato a beversi per la scarsità dei pozzi, l'acqua impura delle fosse ad abitare casolari o piuttosto tuguri angusti umidi, oscuri, senza pavimento e spesso senza imposte alle finestre ...
Sorvoliamo sulle condizioni delle donne altrettanto infelici ... Non è opinabile che coloro i quali coltivavano frumento o legumi stessero meglio!!!
Nondimeno ad onta di tali circostanze, la posizione dei paesi in sulle alture, e le correnti d'aria e la bella vegetazione delle campagna, li sosteneva mediocremente salubri finché una speciale cagione non venne a spargervi le malattie e la morte. Questa cagione appunto è la coltivazione del riso che si fa in alcune di quelle valli nel tenimento di Galluccio, come in quello di Rocca d'Evandro e nel suo villaggio di Cocuruzzo, e presso la Peccia e presso il Garigliano. Esse sono più o meno lontane dai comuni, ma la posizione dei luoghi le rende infeste anche per i comuni che hanno la distanza legale, contribuendo moltissimo da una parte la posizione delle valli a trasportare i miasmi e d'altra parte la circostanza che nei tempi estivi quasi le intere popolazioni sono sparse per le campagne più o meno prossime alle risaie.
E che siano esse dannose alle popolazioni è un fatto che non si può negare in alcuna maniera, imperocché l'epoca della loro esistenza ed aumento segna per quei comuni l'epoca delle malattie e della mortalità. Sono esse tanto più malefiche per la ragione che la situazione topografica dei luoghi soggetta a risentire più fortemente le generali variazioni metereologiche, la gravezza dell'aria, l'umidità ed anche la condizione di poca agiatezza degli abitanti, fanno acquistare un carattere sempre più grave alle cagioni morbose.
Né l'osservazione del danno delle risaie è nuova per quelle popolazioni. Quando nel 1794 furono stabilite le risaie dal duca di Mignano furon tante le malattie e tale la mortalità che produssero che quei comuni desolati ne mossero querele al Governo, il quale convinto delle loro ragioni ne ordinò l'abolizione, siccome era anche avvenuto nel 1692 e nel 1713 (8).
Le risaje di Galluccio sono state in ogni tempo sorgente d'infezione per i numerosi villaggi che lo compongono. Il prof. Giovan Nicola del Giudice chiamato a curare le numerose gravi malattie di quei popoli nel 1803, fra le cagioni del loro sviluppamento annovera le risaie, sì che nell'indicare i mezzi da adottarsi per ispegnere le sorgenti dei loro malanni, si esprime con le seguenti parole: - Bisognerebbe abolire le risaie, come un'altra causa valevole a contaminare l'aria atmosferica - (9).
Dal 1832 (continua De Renzi) dacché estesi terreni del tenimento di Rocca d'Evandro sono coltivati a risaja, sono cresciute le malattie e le morti non solo per le comuni di Rocca d'Evandro e di S. Vittore ... ma anche per le comuni più lontane ... Il Decurionato di Cervaro, spaventato dal gran numero di malattie e di morti osservate dalla metà di giugno alla metà di settembre dell'anno 1837, se ne occupò seriamente ... e fu da tutti riconosciuto che l'enorme numero di morti (102) era da imputarsi alle risaie.
Non bisogna dimenticare, però, che l'anno 1837 è l'anno della recidiva colerica che fu molto feroce.
Nel 1838 fu sospesa la coltivazione del riso e quelle delle popolazioni godettero uno stato plausibile di sanità, eccetto i disturbi dovuti alle forme croniche. Ma nel 1839 coltivatesi nuovamente le risaje si vide in tutt'i comuni una iliade luttuosa di cali. Il governo vi rivolse le sue sollecitazioni; per il che vi si recò il sotto-Intendente del distretto, un Consigliere provinciale ed il Regio Giudice, i quali esaminati i Sindaci, i Parroci, i Decurioni ed i medici di ciascun comune, alla metà di settembre, rilevarono che in Cervaro oltre mille della popolazione erano malati, dei quali morirono sessantuno in due mesi e mezzo, mentre nell'anno precedente nello stesso spazio di tem­po erano morti sola 29. In Rocca d'Evandro trovarono una febbre intermittente perniciosa ... ch'erasi sviluppata sopra 343 infermi, dei quali erano morti 26. In S. Vittore trovarono 340 malati con la morte di 24 e ... e pari cosa era avvenuta per i comuni di S. Pietro Infine, di S. Elia, di Mignano ecc. E queste cose vennero anche verificate dall'abate generale di Montecassino dai capi della Gendarmeria .... (10)
Era incontestabile ormai l'affermazione che le risaie fossero cagione di affezioni perniciose ... la malattia era ormai di casa a Mignano dove era tornata «per più anni e con ordine di tempo».
Nel 1840 era cominciata a Caserta l'epidemia ed aveva colpito Maddaloni, Aversa ecc. spostandosi verso il distretto di Sora, invadendolo tutto e portandosi «in altre remote province»; compresi «alcuni Comuni della Comarca di Roma».
E finalmente la suprema magistratura sanitaria pur riconoscendo che la risaia Ciaraldi era garentita dall'art. 6 era costretta a riconoscere che non era garentita la pubblica salute.
E rivolgendosi ai medici, ne stigmatizzava il comportamento tante volte ambiguo ... certificati spesso senza firma e senza «sugello», inosservanza di regolamenti per cui non avevano denunziato la terribile epidemia di Roccasecca del 1823 né la mortalità infantile, sempre dovuta alle «esalazioni palustri» verificatasi nel 1838 e 39 ... «i bambini grassi e gonfi da prima, smagrirono in prosieguo e quindi in gran numero muoiono».
Con rescritto del 19 maggio 1841 si «ordinò la pronta ed assoluta repressione di tutte le disputate risaje».
Ma nel cominciare del 61, togliendo utile partito dalle politiche agitazioni in cui era involto il paese, il signor Giuseppe De Petrillo ... procacciò di ristabilire in valle Corvara la imprecata coltura del riso.
Produsse egli «sorda domanda al Ministero d'Industria, Agricoltura e Commercio» che ignorando i trascorsi precedenti, chiese informazioni al sindaco, al Governatore di Terra di Lavoro ed alla suprema magistratura.
Avuto parere favorevole da tutti fu «ripristinata nei bassi fondi d'intorno Galluccio la malaugurata coltivazione del riso ... insorsero di nuovo i lamenti e i clamori dei circostanti comuni, in quali rappresentando i danni gravissimi che da simile industria procedono alla pubblica sanità e richiamandosi giustamente alle prescrizioni del prefato rescritto, chiedevano l'im­mediata sospensione».
Tranne il prezzolato sindaco di Galluccio che si appellava ancora alla vecchia storia della miseria e della disoccupazione, insorsero tutti i sindaci dei comuni minacciati.
Questa volta non fu ignorato il rapporto statistico del consigliere provinciale Cedronio del quale si rilevava «un notevole scemamento della popolazione dei comuni di Rocca d'Evandro e Cocuruzzo nel decennio incremento in venti anni posteriori alla loro abolizione». Era più che sufficiente per il nuovo governo il quale decretava: - Tutte le risaie poste nel perimetro che corre dal comune di Rocca d'Evandro a quello di S. Vittore, comprese le risaie del de Petrillo, in valle Corvara e l'altra nascente del Sig. Giacomo Colizza, (devono) essere assolutamente abolite, come sorgente di malsana e di morte alle adiacenti popolazioni» (11).

Note:
(6) Istruzioni per i coltivatori sul metodo di preparare ... del sig. Christian, Napoli 1819.
(7) Cenno sul coltivamento del riso secco cinese del dottor GIOVANNI GUSSONE, Napoli 1826. Già nel 1805 si erano fatti esperimenti a Torino sulla coltivazione dei riso cinese ... «pochissimi semi di questo riso erano nati e nessuna delle piante ottenute aveva fruttificato» in «Nuova Enciclopedia», op. cit.
(8) De Renzi prende l'informazione dai Consulti medici di Cirillo e per quanto riguarda l'abolizione delle risaie di Mignano fu ottenuta con la transazione di cui abbiamo scritto nel testo.
(9) «l'abolizione della coltura di tali generi» fu già richiesta nel 1788 dal Galanti, in «Istruzioni per gli coltivatori», op. cit.
(10) Relazione sullo stato di salute del distretto di Sora di Salvatore De Renzi, in «A.S.N.» Protomedicato fascio 188 - pubblicata anche nel periodico Il Fitiatre Sebezio del 1840.
(11) per la macerazione, «A.S.N.», Fusari Supr. Mag. di Salute f. 173/278; per le risaie «A.S.N.», Protomedicato f. 188, «A.S.N.», Supr. Mag. di Salute fascio 133/228.

 

fonte:RASSEGNA STORICA DEI COMUNI , n. 76-77 GENNAIO-GIUGNO 1995

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