Francesco Cedronio 1879
L’amore che ho sempre nutrito, e nutro nell’animo verso il paese di Rocca d’Evandro, al quale tanti ricordi di mia famiglia son collegati, mi spinge a scrivere queste memorie, tendenti a somministrar lumi e notizie sulla sua origine, e sulle vicissitudini cui ha in diverse epoche soggiaciuto, corrigendo nel contempo tradizioni mal fondate ed erronee. Scevro di qualunque pretensione di essere scrittore, e di qualunque merito letterario non posso ambir lode alcuna né per concetto, né per cognizione, né per stile, e sarà solo soddisfatto il mio animo se, dedicando questo piccolo lavoro alla cittadinanza di essa Rocca, e precipuamente alla parte culta di essa, mi sarà dato riscuoterne compatimento, e benevole accettazione.
INTRODUZIONE
Nella ben nota Valle del Garigliano che si estende dalle sorgenti del Liri, sino al mare, in prossimità del confluente del Liri col Gari, d’onde il fiume riunito prende nome Garigliano, e su di amena collinetta posta presso la sua sinistra sponda veggonsi gli avanzi di un antico paesetto nomato Vantra, o Bantra. Dal lato medesimo andando verso levante, ed a distanza di circa miglio uno e mezzo, vedesi il paese tuttora abitato denominato Rocca d’Evandro ed in antichi tempi anche Rocca di Vantra, o di Bantra. Quando entrambi i paesi erano abitati, il fiume Pecce formava limite dei rispettivi tenimenti, e della rispettiva giurisdizione feudale. Rimasta deserta la terra di Vantra al piano, l’istesso fiume Pecce divideva il feudo abitato della Rocca da quello disabitato Vantra, il primo soggetto pel temporale ora a Montecassino, ora ad altri Baroni, ed il secondo sempre a Montecassino, ed entrambi poi facienti parte per lo spirituale della diocesi Cassinese. Dall’abolizione della feudalità, il tenimento del feudo morto Vantra, che dalla Pecce si estende sino al fosso del Pisciarello e Vallelima fu aggregato a quello della Rocca, cui, aggiunto i tenimenti di Camino e Cucuruzzo come Villaggi riuniti, i quali anticamente formavano Università separate, si è costituito un tenimento di ben miglia dieciotto di circuito circa. I suoi limiti sono il fiume Garigliano a mezzogiorno, il fiume Rapido, il fosso Pisciarello e Vallelima a ponente, che divide dal tenimento di Cassino e San Vittore; il Moscuso ed i Demani di Mignano e Caspoli a settentrione; quelli di Galluccio e di San Carlo ad oriente. Una tradizione comunemente accreditata porta a credere che Vantra al piano fosse stata distrutta dai Saraceni, e che gli avanzi della popolazione avessero formato la Rocca d’Evandro. Una simile tradizione sembrami erronea, e smentita dai fatti istorici; e solo resta a credersi che, andandosi a disabitare Vantra, la più parte dei suoi abitatori si fossero ritirati nella vicina Rocca, e parte forse in tenimento di Galluccio, ove vedesi un piccolo casale detto i Vantresi. Ciò premesso, passeremo ad esaminare i fatti guidati dall’istoria dell’Egregio P. Abate Don Luigi Tosti sulla Badia di Montecassino, e da notizie risultanti da documenti che si conservano in archivio di famiglia, e da quelle cortesemente avute dall’Archivio Cassinese.
VANTRA
Nell’anno 744 dell’era cristiano Gisulfo Duca di Benevento donò immense possessioni alla Badia Cassinese, nell’ambito delle quali è il sito detto Vantra. È dubbio se all’epoca di detta donazione il paesetto Vantra esisteva, o surse dopo; ma io sono mosso a credere che esisteva, dapoichè nell’istoria del Tosti non è nominato tra quelli surti per benigna filantropica opera dei Monaci, come S. Ambrogio, S. Apollinare, S. Angelo, ed altri. È noto che queste contrade erano rimaste deserte dopo la caduta della civiltà Romana, e che, se veggonsi oggi popolose è merito di Montecassino che, raccogliendo coloni intorno alle chiese, formò delle colonie le quali col decorrere degli anni divennero Paesi. La terra di Vantra era fortificata, cinta di muri e torri quadrate con in mezzo delle fosse per conservar cereali, come attestano i suoi avanzi. Le opere però sono dei bassi tempi, né nelle sue vicinanze si scorge vestiglio alcuno di opere appartenenti ai tempi della Romana grandezza. Soltanto qualche scheletro si è rinvenuto nelle vicinanze con accanto la solita lucerna, un pignattino con carboni, ed una moneta di Romano Imperatore. Ritenuto che Vantra era compresa nei beni donati a Montecassino da Gisulfo, pare che i monaci ne dovettero perdere il possesso per qualche tempo, piochè nel 1057 Landolfo Principe di Capua gliene faceva donazione, confermata nel 1108 dal Conte di Teano. È da osservarsi però che Vantra era dei monaci nel 1066 perché il suo nome è inciso sulle porte di bronzo della Chiesa di Montecassino fatte in quell’epoca. Queste alternative di perdite e ricupero di possesso dovettero dipendere dalle piccole guerre, dalle incursioni e depredazioni che i Baroni vicini operavano l’uno contra dell’altro, e quindi non è a maravigliarsene. Tanto Leone Ostiense nel libro 2° Capo 15, quanto Vittore 2° in una sua bolla distinguono due Vantra, una cioè Comitalis e l’altra Monacarum per additare che una, cioè Rocca di Vantra , si apparteneva al Conte e l’altra, cioè Vantra al piano, ai Monaci. Dalla storia poi dell’Abate Tosti si ha che Vantra nel 1117 ebbe distrutte dal tremuoto case e chiese; che poco dopo l’Abate Cassinese Oderisio vi si fortificò contro Riccardo da Carinola, il quale andava ad espugnare il Castello della Pica; e che finalmente nell’anno 1421 ad occasione della guerra tra la Regina Giovanna e Lodovico d’Angiò quella Terra fu occupata dal conduttiere di armi Braccio da Montone, che vi si fortificò, e vi stiede per sei anni sino al 1427. Da notizie somministrate cortesemente dell’Archivio di Monte Cassino si rileva che Vantra aveva due Chiese, una dedicata a San Michele titolo Arcipretale di S. Mauro collegiata con cura di anime, e l’altra dedicata a S. Nicola. La prima nel 1337 fu conferita ad un tal Daniele di S. Angelo in Teodice. Nell’anno 1401 fu censita un’isoletta compresa nelle mura del paese ad un tal Tartaro Tomacelli per una decina di cera all’anno. Nel 1473, giusta il registro di Giovanni D’Aragona, vi esisteva ancora il Capitolo, il quale pagava a Monte Cassino Ducati 4. 80 annui, e nel 1499 non era quella Terra disabitata del tutto stante che il Commendatario dei Medici diede l’amministrazione delle rendite di Vantra ai nominati Carafiello e Stasio di Sangermano, ed un tale Paolo Mastrianni della terra di Camino volle abbandonare il proprio paese, e farsi suddito di Monte Cassino in Castro Vantra. Dagli atti di S. Visita del 1513 ricavasi sistente ancora la Chiesa di S. Michele, cui presedeva un tale D. Damiano di Camino con un chierico. Dopo di tale epoca non più si ha notizia di paese e di Chiese. Da quanto si è detto di sopra chiaro appare essersi la Vantra al piano incominciata a disabitare nel secolo XVI, ed essersi resa disabitata del tutto verso la metà del 1500; dunque non fu distrutta dai Saraceni, la invasione dei quali ha una data di gran lunga anteriore. Il perché poi questa Terra situata in amena e vantaggiosa postura sia stata abbandonata dagli abitanti non si sa. Forse perché essendo al piano era troppo spesso esposta ai danni per le guerre tra i Sovrani e le gare tra i Baroni. Vantra disabitata col suo territorio fu sino all’abolizione della feudalità feudo morto di Monte Cassino, e, cessato il regime feudale, aggregata a Rocca d’Evandro in parte, ed in parte a San Germano. È erroneo che Rocca d’Evandro aveva dritto sul fondo Vantra, e che nella divisione demaniale è stata pregiudicata. Dritti non ve ne erano; e fu per la vicinanza che si ebbe aggregato parte del tenimento in giurisdizione, e tomoli 200 di bosco in proprietà, come in compenso di usi civici. Che anzi nel riparto demaniale erasi Rocca d’Evandro trascurata del tutto: e fu per solerzia dei cittadini, tra i quali D. Gio: Battista Paglioli, D. Emmanuele Ciaraldi seniore ed il Dottor D. Giuseppe Coletti che si ebbe l’assegno. Il paese disabitato fu nel decennio acquistato con altri beni tolti a Monte Cassino dal Conte dei Camaldoli D. Francesco Ricciardi e dagli eredi rivenduto. Oggi le vecchie mura fan parte della tenuta Vantra e Casamarina del Duca Cedronio.
ROCCA D’EVANDRO
Questo paese vedesi edificato su di uno scoglio isolato, a destra, ed a sinistra del quale scorrono due torrenti o rivi di mal tempo. A mezzogiorno, settentrione e levante gli fan corona monti sufficientemente elevati detti, Remotania , Monte Camino e Monte del Campo. Dal lato Occidentale che guarda Montecassino gode la vista di un orizzonte magnifico, scorgendosi tutta la Valle del Garigliano e Liri, e più in sù sino a Veroli, Frosinone, Monte S.Giovanni ed altri paesi per una estensione di oltre trenta miglia. Il clima è salubre, e gli abitanti godono buona salute ed hanno in generale buon sangue. Il tenimento molto esteso, come sopra abbiamo detto, è fertile in ogni specie di prodotti. Ignota ne è l’origine, e l’epoca di sua fondazione. Tutto ciò che ha voluto dirsi fin ora sia dall’Abate Pacichello (Gio: Battista Pacichelli), che lo fa fondare da Evandro re del Lazio, sia da altri, che lo dicono surto dalla distruzione di Vantra, sia dal Cayro, che nella sua istoria del vecchio e nuovo Lazio lo fa sorgere dagli avanzi della popolazione di Succursano Lirinate dipendenza della antica Cassino, sono o pure invenzioni, od almeno malfondate congetture; certo però che è un paese molto antico, ma surto nei bassi tempi, poiché niuna vestigia si rinviene che indichi esistenza anteriore alla caduta del Romano Impero, e dovè sorgere quando per mettersi al sicuro delle incursioni nemiche le popolazioni si ritiravano su poggi elevati e ben difesi. In fatti Rocca d’Evandro vedesi edificato su di uno scoglio di difficile accesso, cui sovrasta altro scoglio, nel quale era l’antico Castello, o la Cittadella ancora così chiamata. Reso forte dalla natura e dall’arte, e situato alle spalle di Mignano è stato in antichi tempi tenuto in molto conto, come punto forte di difesa, e segnatamente prima dell'invenzione della polvere, e quando l’artiglieria era nascente. Nel Guicciardini, ed in altri autori è citato in tempo di guerra come punto contrastato. Oggi non vale più nulla a causa dei monti più alti che lo dominano. È verosimile che questa piccola Terra fosse esistita unitamente a Vantra nel piano all’epoca della donazione fatta da Gisulfo a Monte Cassino, cioè nel 744 poiché il suo nome unitamente a quello di Vantra è scolpito come proprietà del Monistero sulle porte di bronzo della Chiesa di Monte Cassino fatte fondere nel 1066 dall’abate Oderisio. Inoltre il Gattola riporta un privilegio di Lantolfo, e di Atinolfo, da cui rilevasi che la Rocca era abitata verso la metà del secolo XI. Nell’anno 1122 l’Imperatore Errico ne fece piena donazione a Monte Cassino ma poco dopo l’Abate Reobaldo fu fatto prigioniero da Pandolfo di Capua, il quale occupò Rocca d’Evandro, e la diede in potere di un tale Todino vassallo del Monistero resosi ribelle. Intruse poi per Abate un tal Basilio, ma l’Imperatore Corrado scacciò il signore Capuano, e l’intruso Abate, e pose sul seggio abadiale Richerio di nazione Bavaro, il quale ricuperò tutto il patrimonio di San Benedetto, assediò per ben tre mesi Rocca d’Evandro, ed infine l’ebbe per accordo preso con i principali cittadini, dando loro non solo i beni che aveano perduti, ma quelli che il Todino possedeva in Pignataro e S. Elia. Al ribelle Todino fu rasa la barba ed i capelli, e destinato a cerner farina, e panizare pel Monastero. Intanto Pandolfo Principe di Capua cacciato dai suoi stati da Guaimuro Principe di Salerno chiamò gl'imperiali in suo soccorso, promettendo loro in compenso ciò che non era suo, cioè i possedimenti dei Monaci Cassinesi. Il Conte di Teano si associò all’impresa come quello che avea i suoi stati prossimi a quelli della Badia e possedeva Camino prossimissimo alla Rocca d’Evandro. Poiché però la Rocca era difficile ad espugnarsi pensò impossessarsene per tradimento corrompendo con danaro il Castellano, e promettendogli una sua sorella in moglie. Era Castellano un tale Armanno anche Bavaro fratello dell’Abate, che perciò finse aderire al progetto; ed aprì le porte del Castello al Conte; ma come l’ebbe introdotto lo ritenne (in) prigione con la scorta, né volle in niun conto rilasciarlo, malgrado gli ordini dell’Abate, il quale era stato impegnato alla sua liberazione. Dové l’Abate espugnare la Rocca con la forza, e così liberarlo, mediante però formale rinuncia ad ogni pretesa sulla Rocca medesima. Verso l’anno 1314 essendo Abate Pietro (come dice il Tosti) non andando più a sangue a quelli di Rocca d’Evandro il governo badiale, pensarono ribellare. Era rettore per la Badia nella loro terra un signoretto Monaco nipote dell’Abate, il quale quando un dì discese dalla Rocca nella terra fu ad un tratto preso ed impedito di tornare. Spedirono gli Evandresi legati al re Federico in Gaeta, ove era venuto per andare a Roma, e lo pregarono volesse loro concedere altro Signore. Il Re volle contentarli e fidava a Giovanni Russo di Gaeta Rocca d’Evandro. Giunto in Roma Federico, v’arrivò anche il Monaco Stefano detto Marsicano che a nome dell’Abate e dei Monaci adoperossi presso il Pontefice ed il Re per riavere Rocca d’Evandro: regie e ponteficie lettere furono spedite al Castellano Russo, perché restituisse la terra ai Cassinesi, ma nulla valse, amando costui meglio tenerla per sè che renderla. Atenolfo, cui forse era increscevole l’ozio del chiostro, volenteroso uscì in campo con armi ed armati che menò alla espugnazione della Rocca. Lunga pezza si travagliò per ottenerla; ma in vano, perché in alto locata, e benissimo difesa dai terrazzani, ne provava un di più che l’altro la difficoltà del conquisto. Posate le armi l’Abate venne a ragionamenti di accomodo, ed ottenne la terra regalando il Russo di buona moneta e dandogli in sposa una sua nipote. Così Rocca d’Evandro ritornò sotto la temporale giurisdizione di Montecassino. Nell’anno poi 1348 allorché gli Ungari comandati da Lodovico vennero a vendicare la morte del Re Andrea, un tale Iacopo Pascone (Papone) da Pignataro, profittando dello sconvolgimento in cui era la Badia, si rese ribelle, assoldò molta gente; occupò molte terre tra le quali Rocca d’Evandro, e si mantenne padrone di esse molti anni; ma finalmente, arrestato in Ceccano e condannato a morte, restituì tutto il mal tolto, e donò alla Chiesa di Rocca d’Evandro un terreno ove aveva piantato la vigna. Le sue gesta son rimaste tradizionali nella mente del volgo, di talché ancora, volendo indicare un nome di cattiva condotta, dicesi ne ha fatto più esso che Papone. Dopo questo ricupero dalle mani del Papone, la terra di Rocca d’Evandro dové uscire novellamente dal dominio temporale Cassinese perché nel 1388 ne era possessore Tommaso Brancaccio. Il motivo di tal novità ci è ignoto. Per ribellione del Brancaccio dal Re Ladislao, la terra fu pubblicata al fisco, e restituita dal Re a Monte Cassino, il quale dové perderla di nuovo forse ad occasione di altra guerra e ribellione, perché lo stesso Re nel 1413 facultava il suo Ciambellano Gesuè di Fasal a vendere una metà del Castello di Rocca d’Evandro. Dopo questo fatto Montecassino ne perdè per sempre il possesso, e segue una serie di Baroni sino alla legge evasiva della feudalità. Dopo una tal epoca furono Baroni della Rocca Cola de Orsino e Maria di Marzano Conti di Monappello. Nel 1500 ne era possessore Ettore Fioramosca Duca di Mignano per concessione del Re Ferdinando. Nel 1528 ne era feudario Federico Monforte sopranominato Gambatesa, il quale si rese ribelle all’imperatore Carlo V. Nello invadere che fecero le armi imperiali il regno Napoletano, gli abati di Monte Cassino, e di S. Paolo a Roma si chiusero con i loro tesori nella Rocca d’Evandro, e vi si fortificarono. Il Marchese di Pescara Francesco d'Avolas Gran Capitano di Carlo V mandò ad espugnare la Rocca il Colonnello Maramaldo con artiglieria, ed, arresasi, fu devoluta al fisco novellamente. L’artiglieria dovè essere piazzata sul Monte che guarda la Rocca dal lato di mezzogiorno, perciò detto Monte del Campo, ove vedesi traccia di Macerone fatto per rendere piana la strada al passaggio delle bocche da fuoco. Ecco perchè a punto di rincontro a quel monte tanto a piedi del paese, quanto a piedi del Castello si son rinvenute diverse palle di cannone, molte intiere, talune divise a metà, del peso di rot. 17 circa, una delle quali fu rinvenuta nel corpo di un muro del Castello in occasione di doversi rifare. L’abitato di Rocca d’Evandro era chiuso da due porte, una detta di S. Margherita, e l’altra dell’acqua; era cinto di mura solide con torri quadrate, con una gran torre circolare detta il Torrione, nome che ancora conserva quel sito, e più innanzi era situato il cannone chiamato Colombrina, dando il nome di Colombra al fondo sottoposto. Andando più verso mezzogiorno su di una rupe a picco levavansi altre fortificazioni, che perciò quel sito chiamasi ancora i Castelloni. Il sovrastante Castello cinto da rupi a picco comunicava con la torre fortificata per mezzo di ripiano cinto da mura che ancora dicesi Cittadella, dal quale con strade interne segrete si discendea nell’abitato. Ecco perché la nostra Rocca fu punto interessante di ritirata e di difesa sino a che l'invenzione della polvere, attesi i monti sovrastanti che la circondano, le ha tolto ogni importanza. Dopo questa breve digressione ritorniamo all’elenco dei Baroni. Morto il Marchese di Pescara la vedova Vittoria Colonna ebbe assegnato sul feudo di Rocca d’Evandro Ducati 1000 annui in compenso dei servigi che il marito avea reso alla corona, e nel 1534 l’ebbe difinitivamente in fondo. Nell’anno 1548 Maria d’Aragona del Vasto, avente causa dalla Vittoria, cedé il feudo a Giulio Carafa, col patto di riavere, e nel 1552 se ne fece vendita diffinitiva a Marcello Munettola (Muscettola), il quale nel 1563 ne fece cessione ad Antonio Bologna, e da costui passò alla famiglia Sammarco nel 1577. Questa nobile famiglia da gran tempo estinta, fu posseditrice dei feudi di Rocca d’Evandro e Camino circa all’anno 1652. I Sammarco furono chi più chi meno dediti alle lettere, ed a procurare l’istruzione dei vassalli. A Fabrizio succedè Gio: Vincenzo detto Giureconsulto, ed a questi Ottavio uomo di lettere, scrittore di varie opere e tra le altre di quella intitolata Della mutazione dei regni. Quest’opera fu ristampata nel 1805 con un discorso di Leonardo Salviati e con delle notizie sulla vita di Sammarco inesatte ed erronee, e corrette dal Marchese Alessandro Cedronio. Ad Ottavio succedè il germano Antonio, a questi Fabrizio, ed a quest’ultimo succedè la sorella Porzia, nella quale la famiglia si estinse. Un’altra sorella a nome Aurelia fu anche donna amante delle lettere, ed istituì una scuola di grammatica nella vicina terra di S. Vittore. Il perché lì, e non alla Rocca, proprietà di famiglia, non saprei dirlo. Dotò la scuola di Ducati 500 da impiegarsi in compera, onde con la rendita mantenere il Maestro, e donò al Comune di S. Vittore Ducati 250, da farne maritaggi. L’Università diede questi Ducati 750 al Dottor Carlo Cinquegrana per la corrisposta di annui Ducati 37. 50, ed ebbe assicurazione sopra una casa palaziata, ed un Oliveto detto Colle di Marco in S. Vittore, ed una Selva nel feudo di Foraldo detto Valle Marina. L’Istrumento lo stipulò l' 11 9bre 1673 il Notaio Pietro Ferrone di Napoli. A motivo di essersi estinta la casa Sammarco i feudi ritornarono al fisco, da cui li acquistò il dottor Gio: Domenico Pelosi nobile Cosentino. Anatonia unica figlia ed erede del Pelosi sposò Francescantonio Cedronio, e così per successione i detti feudi si trovarono presso la famiglia Cedronio ultima feudataria come si vedrà. Estinta, come sopra si è detto, la famiglia Sammarco fu dalla Regia Camera ordinato l’apprezzo del feudo, onde vendersi, e pagarsi le obbligazioni di quella famiglia, e ne fu data commessa nell’anno 1625 al tabulario Salvatore Pinto; questi fa precedere alla valuta del feudo una descrizione dello stesso, e si esprime ad un di presso in questi termini. Dopo aver esaminato la situazione, l’aere e l’orizzonte, che dice estendersi fino a Frascati, dice pure essere gli abitanti robusti e di buon aspetto tanto maschi, che femmine, ed esser gente quieta, non rissosa e non litigante. Essere per lo più foresi, o sia travagliatori di campagna, con un medico, un Chirurgo, tre barbieri ed una levatrice, né esservi altri artigiani. Dice esservi buon grano, buon vino, e frutta. La piazza la descrive piuttosto larga con botteghe intorno, ma disabitate e senza pavimento, in una delle quali si macellavano gli animali. La Chiesa la descrive coverta a tetti, e ad una nave con cappellone a sinistra, e situata a fianco della piazza. Il suo titolo era di S. Antonio Abate, allora protettore del paese. Descrive le due Congreghe della Grazia e del Rosario; dice il Coro essere sovrastante alla porta di ingresso con l’organo portatile. Eranvi allora l’Arciprete, sei Sacerdoti e diciotto Chierici. Dice di più il Pinto esservi un’altra Chiesa dedicata a S. Margherita, la quale anticamente era la Chiesa Madre, e non cita né S. Antonio, né S. Tommaso, le quali han dovuto sorgere dopo. Quella di S. Antonio Abate certo surse quando fu dato alla Chiesa Madre altro protettore, che, dicesi, fusse stato S. Antonino, al quale succedette poi l’attuale protettore S. Rocco. Il paese era tassato per fuochi 60; e governato da tre eletti, che a quell’epoca erano Antonio de Zillo, Giacomo Orefice e Francesco Lenei. Il Serviente ed intimatore era Carlo Campagnolo. Nel Dizionario poi Geografico di Lorenzo Giustiniani stampato in Napoli nel 1804 al fol. VIII, pagina 27 si legge: "Rocca d'Evandro, così è scritta questa Terra nelle situazioni del regno, e soltanto in quel libricciuolo infelicemente formato della nota dei paesi del Regno col numero dei fuochi sta scritta Rocca d’Evandro. E’ compresa in Terra di Lavoro in Diocesi di Monte Cassino, distante da Napoli miglia Cinquanta, ed otto da S. Germano. Nella cronaca di Riccardo da S. Germano è scritta Rocca Bantra (Codice anno 1211 e 1215) che è la vera sua denominazione. Non saprei perché Trojano Spinelli nel suo saggio p. 43 l’avesse chiamata Rocca d’Evandra. Vedesi edificata in luogo montuoso, e la dicono di buon aria e di qualche antichità. Vi si vede un Castello, opera dei bassi tempi. Nel 1532 fu tassato per fuochi 53, e nel 1545 per fuochi 54, nel 1669 per 74, ed oggi gli abitanti (cioè nel 1804) ascendono a 1300. Presso Leone Ostinese lib. 2 cap. 15 trovasi Landone Conte di Bantra. Nel 1000 l’Abate Mansone Cassinese ricevè da Landolfo Principe di Capua la conferma del castello Rocca Bantra." "Si ha notizia che nel 1030 Teodino ebbe Rocca di Vandra da Landolfo Principe di Capua, e la diede all’Abate di Monte Cassino, perché assediata da Corrado Imperatore (Ostinese lib. 2 Cap. 59 e 68). Negli ultimi tempi fu posseduta dalla famiglia Sammarco, e presentemente la possiede la Famiglia Cedronio”. All’epoca che scriviamo queste memorie Rocca d’Evandro conta una popolazione di anime 747 nell’abitato centrale, e 1475 nelle case sparse; in tutto anime 2222 oltre i due villaggi riuniti di Cucuruzzo e Camino, quale popolazione è per la più parte dispersa in campagna, sia per la comodità di strade in pianura e per abbondanza di acqua, sia perché il paese essendo edificato su di uno scoglio non presenta spazio atto al suo ampliamento. Il Castello che la domina, antica fortezza come abbiamo detto, all’epoca dell’apprezzo del Tavolario Pinto della pervenienza in casa Cedronio era ben ristretto nel suo fabbricato. Non vi erano che tre o quattro bassi, due grandi sale, tre altre camere in seguito con dei suppegni, un piccolo orto in fondo ed una loggia scoverta con conserva d’acqua ove oggi è galleria dal lato di mezzogiorno; tutto ciò che vedesi ammassato di fabbriche attualmente è stata opera della famiglia Cedronio che ha fabbricato sulle vecchie basi dell’antico Castello, conservandone per quanto à potuto la forma e le antiche torri. Ritornando alla famiglia Cedronio, ultima posseditrice dei feudi di cui parliamo, non credo fuor di proposito darne un piccolo cenno istorico. Essa è di origine romana, e, secondo la descrizione che ne fa la platea di famiglia si trovò trapiantata nel Regno di Napoli per cagioni politiche. Se si vuol prestare fede ai certificati di patriziato Romano rilasciati dall’archivio del Campidoglio, essa si fa discendere dai nominati Caio, e Pisano Cedronio citati da Tacito nei suoi annali; ma mettendo ciò in non cale, il certo si è che nell’anno 1343 Pompeo Cedronio, Conte di Castelnuovo e Palombara, si trasferì da Roma a Napoli, ove dalla Regina Giovanna 1ª fu nel 1344 nominato Gran Siniscalco della Provincia di Talqualquerio. La famiglia visse prima parte in Napoli, e parte in Roma , e poi riunitasi tutta in Napoli visse parte ivi e parte nella città di S. Germano per la maggiore vicinanza a Roma patria primitiva. Gli eredi del Conte Pompeo ebbero nel Regno altri feudi come quelli di Corvara in Abbruzzo, e di Cominaglia, o Romagnano. In S. Germano la famiglia acquistò molti privilegi aboliti dalle nuove leggi. Francesco figlio di Benedetto, e di Vittoria Ferramosca fu Castellano di Rocca Gianola, e capitano a guerra della città di S. Germano: verso il 1421 una Gemma Cedronio fu prima Badessa del Monastero di S. Scolastica, ed in seguito un Benedetto Cedronio fu arciprete della Cattedrale di detta Città. Da questo ceppo venne Francesco, il quale per aver sposata la Pelosi divenne Barone di Rocca d’Evandro e Camino. E volendo enumerare i diversi Baroni di casa Cedronio essi furono Benedetto casato con Vittoria Burbau dei Marchesi di S. Maria dell’Umbria. Anno 1696 Domenico suo figlio casato con Lucrezia Carafa dei Marchesi di Tortorella. 1725 Altro Benedetto casato con Teresa Gisulfo, e Platamone dei Duchi di Ossada di Palermo. 1764 Altro Domenico, e per la di costui morte senza prole il germano Gioambattista casato con Dª Giovanna l’Ost di Malta. 1782 Alessandro ultimo possessore casato con Maddalena di Giogio. Questi possessori amarono il progresso e la civiltà del paese, e non solo incoraggiarono i giovani ad istruirsi nelle arti e nelle scienze, ma tanto nel paese, che in Napoli non furono avari verso di essi di sorveglianza e di aiuto. Taluni individui di famiglia come il primo Bali D. Francescantonio, D. Pietro, D. Alessandro (che fu Arcivescovo di Bitonto) non isdegnarono dare essi stessi lezione ai giovani nel Castello di loro abitazione. All’epoca di cui discorriamo si ebbero in Rocca d’Evandro Avvocati, Magistrati e Filosofi. Tra questi si distinsero i Medici Catalozzi e Framondi, il Farmacista del Vecchio, i Notai Framondi, Comparelli, gli Avvocati Coletti e Ciaraldi, ed altro Ciaraldi Consigliere del S. Reg°. Consiglio, ed infine D. Gio: Battista Di Zazzo seniore Sacerdote versato in diverse scienze, e lettore in filosofia. Fu coll’impulso del Marchese D. Gio: Battista, e sotto i suoi auspici che la Chiesa Madre venne ingrandita, elevata d’altezza, e decorata di stucchi e buona architettura. L’organo fu fatto da lui costruire, essendo egli intelligentissimo di studio musicale, e compositore di molte opere. Il figlio Alessandro rese rotabile la salita dalle Pecce al paese, secondo meglio dettavano i lumi di quei tempi, facendo trasportare dai naturali i materiali per giro, e pagando esso l’opera di costruzione. È tradizione che l’acqua anticamente veniva sino in piazza, ed è perciò che la via sottoposta chiamasi dei Lavatoi. Il corso, che era formato di tubi di creta, dovè rompersi, e ostruirsi di modo che l’acqua si aveva nel sito ora detto fontana antica molto distante dall’abitato, e senza alcuna costruzione adatta al comodo degli abitatori. Alessandro costruì l’intero acquidotto che oggi esiste dall’acqua viva al largo di S. Eleuterio lungo metri mille tutto a sue spese, costruì fontana e Vasche nel largo suddetto, che, essendo suo col solo passaggio pubblico per andare a Camino, regalò al Comune. Ciò risulta da istrumento per notar Costantino d’Amico di S. Andrea del 10 dicembre 1801. Rocca d’Evandro aveva il privilegio del mercato in giorno di martedi concesso dal Re Filippo o Falnisio Sammarco nel 1588. Questo beneficio rimase sin dal principio lettera morta, sia per le difficoltà di accesso sulla Rocca, sia per l’esistenza del mercato di Roccamonfina che si celebra il Lunedì. Nell’anno 1749 il Marchese D. Benedetto Cedronio ebbe la concessione di una fiera da celebrarsi il 1° e 2 Settembre di ciascun anno detta di S. Antonio principale protettore del paese. Questa fiera si teneva nel sito detto S. Sebastiano prossimo all’abitato ove erano comodità sufficienti, poiché il fondo dei Signori Ciaraldi non era ancora piantato ad Olivi, ed i fondi di Cambellone, Cuomo e Martella erano spazi Comunali. Abbiamo inteso da persone molto inoltrate negli anni, le quali si ricordavano la fiera in quel sito, che per mancanza di acqua sufficiente, per restrizione di locale, e per essere più di un animale caduto nei pozzi erasi la fiera trasportata alla pianura detta delle Pecce, ove è il molino. In quel sito comodo per accesso e per abbondanza di acqua, per ricovero del molino, sue stanze superiori, stalle, e annessa taverna, oggi abbandonata, e più quello all’orto Pecce e Masserie di Teresa Grilli oggi Coletti la fiera divenne animatissima, ed una delle prime per animali vaccini, principalmente dopo quella di S. Francesco in Cassino. Vi accorrevano non solo dai paesi vicini, ma da tutti quelli dalla parte di Sora, di Teano e Sessa. Gli animali erano esenti da dazio e si pagava piccolo dritto per le baracche, che appostatamente si costruivano. Il dritto che prima era baronale e poi divenne Comunale si fittava circa D. 512 l’anno, dritto che fu abolito nel 1835 circa per rendere la fiera più accorsata. Venne in mente a diversi principali del paese sotto il Sindacato del fu D. Gio Battista Pagliola ricondurre la fiera sul paese per renderla più animata e piazzarla fu fondi capitolari e di qualche proprietario; ebbero anche in mente di dare maggior comodo ai naturali ma non si pensò per gli avventori i quali, sia per la salita faticosa, sia per l’imposizione dei dazi, sia per la mancanza di acqua, sonosi a poco a poco allontanati; la fiera si è resa poco frequentata e lo è per lo più o da paesani, o da gente dei paesi molto vicini. A tutto ciò si aggiunge che per la vendita avvenuta dei beni della Chiesa, e le piantagioni di olivi che si stanno praticando il locale è ridotto ristrettissimo, e sempre più andrà restringendosi. Sarebbe quindi desiderabile pel bene del commercio e dell’industria, che gli Amministratori si risolvessero a riportare la fiera nel piano delle Pecce, con lo scopo di rianimarla di nuovo. E qui terminiamo di parlare di Rocca d’Evandro per passare a dire poche parole su Camino e Cucuruzzo. Per questi due Villaggi poco possiamo dire. In quanto a Camino esso era posto sulla cima del monte ove tuttora è una chiesa, la quale era la parrocchiale del paese, ed ove nel mese di maggio accorre molto popolo dai paesi vicini per devozione alla Vergine cui è dedicata. I molti avanzi di antiche fabbriche, le quali circondano la Chiesa, confermano che il paese lì era. Il paese dovè esser arso nel 1192 ad occasione della guerra tra Arrigo e Costanza contro Tangredi: la popolazione allora dovè ridursi in sito meno aspro e più vicino a Rocca d’Evandro, ove attualmente esiste, chiamato Cesa Ferrara. Camino formava Università e feudo separato da Rocca d’Evandro. I confini del suo tenimento giungevano a poca distanza dal detto Comune, nel sito ove dicesi Acquaviva. Avea le sue costituzioni, delle quali si conserva una copia del Re Filippo nel 1573. Lo spirituale è sempre andato, e va tuttora con la Diocesi di Teano. Il piccolo feudo fu posseduto dai Conti di Teano, e poscia da Guidone Ferramosca Conte di Mignano. Come si trovasse poi riunito in feudo a Rocca d’Evandro sotto i Baroni Muscettola ci è ignoto. La sua popolazione dedita alla agricoltura e pastorizia, conta 384 anime divise tra Camino, Colle, Formella, e Vallevona. Dal 1811 è villaggio riunito alla Rocca. È da notarsi che nel tenimento di questo villaggio vi è una montagna demaniale detta del Giallo perché offre il marmo di tal colore. Vedesi l’antica cava e la strada per la quale i pezzi di marmo si trasportavano al Garigliano ove si caricavano sopra zattere e si portavano sino a mare, e quindi con le barcacce sino a Napoli. Il marmo è di buon colore e se ne veggono i gradini degli altari ed altari intieri nella Chiesa di Rocca d’Evandro, e delle tavole per mobili in case private. La facilità di avere marmi migliori con minore incomodo e spesa di trasporto, ha prodotto che detta cava rimanesse abbandonata. Cucuruzzo vedesi oggi situato su di una prominenza che pare doveva chiamarsi Cucuzzolo. A piedi di questo poggio vi è un sito chiamato Cucuruzzo vecchio. È a ritenersi che nel 1146 nella guerra tra Ruggero ed il Papa, essendo state arse molte terre tra le quali Mortola, posta nel piano, gli abitanti di essa emigrando dovettero formare prima un villaggio ove dicesi Cucuruzzo Vecchio, e poi per meglio difendersi salire sulla prominenza ove oggi vedesi ancora. Questo paesetto era feudo di Montecassino, e soggetto come lo è a quell’Abate per la parte spirituale. Era cinto di mura con porte. La chiesa domina il paese come un castello. Ove era l’antica Mortola resta una chiesa detta S. Maria di Mortola accorsata l’ultima Domenica di Maggio dai devoti dei paesi circonvicini. La popolazione attuale è di circa anime 616 delle quali abitanti nelle case sparse numero N. 276. Il tenimento di questo villaggio appunto giunge sino a quello di S. Carlo che è un casale di Sessa, ed a poca distanza dai bagni termo-minerali di Suio. Nell’istesso tenimento di Cucuruzzo e Mortola vi sono molte sorgive di acqua solfurea , ferrata ed acidola, piacevoli a bere, ma un poco più deboli di quelle che si attingono più in là verso Suio. Queste acque preziose erano ben note, ed in uso presso gli antichi Romani, e lo sono state sempre, e lo sono ancora; se non che col procedere dei secoli, e con le guerre e le devastazioni, dei stabilimenti che vi erano, restano solo pochi ruderi, ed è da secoli che coloro i quali vogliono profittare dei bagni debbono adattarsi ad alloggiare sotto tende, o capanne di frasche. Oggi la provincia ha eretto in quel sito uno stabilimento troppo meschino però, e poco decoroso per una Provincia come quella di Terra di Lavoro. Il Dottor fisico Vittorio di Monaco analizzò chimicamente quelle acque, e raccomandò il miglioramento delle case alla munificenza del Re Ferdinando IV; ma nulla si fece e nulla più si è fatto. È da sperare che sotto l’attuale governo libero sorga a Suio uno stabilimento balneario degno della civiltà dei tempi. Il saggio analitico del Dottor di Monaco fu stampato nell’anno 1798, dedicato al Dottor Giuseppe Vario.
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