Nuovo Mondo, Nuovi Scenari
BRASILE
Da “NEWS ITALIA PRESS”
L’emigrazione europea verso il Brasile
comincia intorno al 1820 ma assume una certa consistenza
solo a partire dalla metà del secolo scorso. In
complesso il paese accoglie in cento anni circa
1.500.000 italiani i quali rappresentano la seconda
comunità etnica del paese, pari a circa 1/3 del totale
degli immigrati. Ma, come fenomeno di massa,
l’emigrazione può essere racchiusa in un arco di tempo
più breve di quello argentino. Tra il 1887 e il 1902
entrarono in Brasile poco più di 850.000 italiani,
raggiungendo nel 1891 la punta massima annuale pari a
100.000 persone; nel 1888 la schiavitù era stata abolita
nel paese ed i fazendeiros - proprietari delle
vastissime coltivazioni di caffé per le quali il Brasile
è ancora noto - si adoperarono per far venire, anche per
proprio conto, immigrati stranieri che potessero
supplire alla mancanza di manodopera nelle piantagioni.
Nel 1901, come conseguenza di una crescita costante del
prezzo del caffé sul mercato mondiale e di una crisi economica della vicina Argentina, la
comunità italiana in Brasile toccava 1.100.000 unità;
oltre al lavoro nelle fazendas, gli italiani si
insediarono nelle zone rurali del Brasile meridionale
favorendo la nascita delle notissime "colonie".
Lavoratori
italiani arrivano alla Hospedaria dos Imigrantes
nel
quartiere
del Brás, São Paulo, alla fine del XIX secolo.
Fonte: Memorial do Imigrante
Nel territorio brasiliano, l’emigrazione
italiana ebbe due grandi scenari: gli stati del Sud del
Brasile (Paranà, Santa Catarina e Rio Grande do Sul) e
quelli del Sud-est (Saõ Paulo, Minas Gerais, Espìrito
Santo e Rìo de Janeiro); ancora oggi tali stati
concentrano - non soltanto "poli" urbani ad altissimo
tasso di immigrazione straniera (come Saõ Paulo, che da
sola accolse il 50% di tutti gli stranieri entrati nel
paese fino al 1959) - ma anche la quota assoluta più
elevata di italiani e dei loro discendenti, che viene
oggi calcolata intorno ai 7 milioni di persone. Oltre
all’utilità dell’immigrazione per motivi economici,
bisogna anche considerare che l’orientamento della
politica nazionale mirava al branqueamento
(sbiancamento) della "razza"; l’immigrato ideale era
europeo, bianco, latino e cattolico, e la sua presenza
doveva riequilibrare la minoranza di bianchi lusitani
presenti nel paese, trasformando quest’ultimo da una
nazione bi-etnica (bianchi e neri, e gli "incroci" di
mulatti, meticci e pardos), in una nazione multietnica.
Tra le due guerre e successivamente nel secondo
dopoguerra il flusso migratorio italiano si ridusse in
modo considerevole e fu, rispettivamente, di circa
100.000 e 130.000 persone; ancora più significativo è il
fatto che, in seguito all’elevatissimo numero di
rimpatri, il saldo migratorio in questo periodo fu quasi
nullo. La regione italiana che, in assoluto, ha fornito
al Brasile il contingente più elevato di emigranti è
stato il Veneto, la cui diaspora ebbe una forza
particolare fino al 1914; successivamente, il flusso
diminuì e divenne più elevato quello proveniente dalle
regioni meridionali della Campania e della Calabria.
Rispetto alle altre comunità etniche presenti in
Brasile, quella italiana è stata a lungo la
maggioritaria e, a partire dai primi anni del ’900, fu
seconda soltanto alla collettività di origine
portoghese.
Il censimento effettuato nel paese nel 1940 offre la
possibilità (apparentemente unica) di analizzare la
struttura della nostra migrazione. E’ stato infatti
possibile calcolare l’indice di mascolinità che,
diversamente dall’Argentina, indica una buona
proporzione tra i sessi (nel 1940, 91 donne per cento
uomini); ma nonostante questa parità, la collettività
italiana manifestò una forte tendenza all’esogamia (circa l’80% delle unioni
dei maschi italiani si realizzava al di fuori del gruppo
etnico). La frequenza dei matrimoni misti insieme alla
tendenza a dimenticare la lingua italiana (effetto anche
di una legge brasiliana del 1939 che proibiva l’uso di
lingue straniere) mostrano che il processo di
integrazione alla società brasiliana fu assai
accelerato.
Nonostante che l’immigrazione di massa fosse destinata
soprattutto al lavoro nelle piantagioni di caffé ed alla
colonizzazione delle zone rurali brasiliane, già
negli ultimi anni del secolo scorso si ebbe uno
straordinario fiorire di attività di natura industriale, particolarmente intenso nella città
e nello stato di Saõ Paulo; fabbriche e officine erano
di modeste dimensioni e producevano beni di consumo
destinati ad un mercato con scarso potere di acquisto.
Diversamente da quanto accade per l’Argentina, i dati
storici sul contributo degli immigrati
all’industrializzazione del Brasile sono scarsissimi, ed
altrettanto rari sono gli studi che approfondiscono l’argomento; gli storici e i sociologi che ne
hanno tentato una ricostruzione hanno attinto
direttamente dalla conoscenza personale del problema e
dai tratti generali della trasformazione
economico-strutturale degli stati meridionali
brasiliani. Tali studi sono concordi nell’affermare che
furono soprattutto gli immigrati tedeschi e italiani a
dedicarsi alle piccole attività industriali fiorite
nelle "colonie" e nelle grandi aree urbane nascenti alla
fine dell’800; la popolazione lusitano-brasiliana
infatti, per ragioni sia culturali che di prestigio, si
concentrava soprattutto nei settori dell’allevamento,
dell’agricoltura e della pesca. Anche per questi motivi,
la collettività italiana finì per assumere un ruolo
molto importante nella formazione della borghesia
urbano-industriale a Saõ Paulo, Rio de Janeiro, Porto
Alegre, Curitiba. Uno studio effettuato in quest’ultima
città, sui registri della Giunta Commerciale del Paranà,
indica che nel periodo 1890-1929 il 60% degli
imprenditori dello stato era di origine straniera e la
percentuale italiana (15%) rappresentava la quota più
elevata tra le varie appartenenze etniche; gli
imprenditori italiani predominavano nei settori della
metallurgia leggera (stagno e ottone), lavorazione del
marmo, produzione di pasta alimentare e di accessori per
l’abbigliamento (scarpe e cappelli).
Tra questo contingente "storico" dell’immigrazione
italiana ed il secondo contingente giunto nel paese dopo
la Seconda guerra mondiale la convivenza fu estremamente
difficile e, per molti aspetti, essa si considera non
ancora compiuta. I motivi di attrito furono
socio-culturali, politici e generazionali; i nuovi
venuti, infatti, furono ritenuti i responsabili della
sconfitta e della caduta di prestigio della madre
patria, che colpivano direttamente anche gli italiani
all’estero; inoltre i nuovi immigrati erano portatori di
un’etica del lavoro diversa da quella degli antichi
coloni veneti: la sensazione di smarrimento e confusione
dei primi, il loro rifiuto di accettare qualsiasi
situazione lavorativa, la richiesta di venire tutelati
dalle autorità consolari italiane, le numerosissime
domande di rimpatrio erano tutti elementi interpretati
dalla colonia di residenti come indolenza, furbizia,
scarsa dedizione al lavoro; vi furono anche incidenti e
contrasti profondi di ordine politico, tra fascisti e
anti-fascisti, nella comunità italiana. Il tutto portò
ad una scarsa ripresa della vita associativa della
collettività in quanto tale; quando questa avvenne seguì
soprattutto la logica del campanilismo e
dell’ultraregionalismo, che ancora oggi si osserva in
una qualche misura a Saõ Paulo, piuttosto che quella
dell’identità nazionale e comunitaria.
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