Camino e i caminesi
Brano tratto dal romanzo
"PARTENZA DA UN MATTINO
FREDDO" di Antonio Seccareccia
(Cap.
quattordici – pag. 134-138) - Giulio Perrone Editore, Roma – I edizione
Maggio 2007
...Era la sera del trenta dicembre, e l'indomani
mattina la mamma e Tina si alzarono molto presto per friggere i "crespiegli",
una specie di grosse ciambelle di pasta lievitata che secondo la
tradizione si facevano per l'ultimo dell'anno. Io rimasi ancora a
letto, ma senza dormire, perché ogni tanto dalla cucina udivo il
parlottare allegro delle due donne e ormai anche nelle case vicine la
gente era tutta in piedi. Poi Tina venne ad avvertirmi che giù per la
montagna si vedevano le luci dei primi caminesi, che come sempre a San
Silvestro, scendevano a valle per portare ai gallucciani gli auguri
per il nuovo anno.
Mi alzai e andai a guardare alla finestra, che dava appunto dalla
parte di Monte Camino. Era ancora buio e perciò le luci — lanterne e
torcie — si distinguevano chiaramente mentre, lente e ondeggianti,
scendevano lungo il grande sentiero sassoso in direzione di Mieli, la
prima borgata di Galluccio situata ai piedi della montagna.
Camino, il paese da cui venivano quelle luci, era proprio in cima al
monte, ma parecchio all'interno rispetto a Mieli, in un valloncello
che lo proteggeva un po' dal vento di tramontana che soffiava spesso
dalle nostre parti. Durante l'inverno c'era tuttavia molto più freddo
che da noi nella grande valle, e ogni tanto ci cadeva anche la neve.
Il paese era costruito tra le pietre e tutto con le pietre. Le piccole
case ad un solo piano con accanto una stalla ed un cortiletto per le
bestie. Le stradine ed i sentieri in saliscendi. Il minuscolo cimitero
coi tumoli che si potevano contare da lontano, tanto erano pochi. Le
recinzioni dei piccoli campi in cui crescevano, oltre a quercioli e
grossi cespugli di càrpeni e mortella, radi ulivi e fichi nani. Gli
abitanti, che non dovevano raggiungere il centinaio, oltre che alla
coltivazione della scarsa e povera terra dal colore rossiccio, si
dedicavano all'allevamento del bestiame, che più che nei campi, veniva
portato al pascolo nella grande montagna aperta specie sul versante
dalla parte di Galluccio. Gli animali: capre, pecore, asini, maiali,
erano tutti di razza più piccola del normale, come del resto i buoi,
che oltre ad essere piuttosto sfiancati, avevano grandi corna aperte
ed erano di colore bruno come gli asini.
I caminesi, salvo qualche eccezione erano tipi alti e forti tutti d'un
bel colorito roseo e pieni di salute, lavoratori e camminatori
instancabili, che salivano e scendevano la loro montagna, da un
versante e dall'altro, come se si trattasse delle scale di casa.
In autunno, al tempo della semina del grano, gli uomini scendevano a
Galluccio per arare i nostri campi coi loro buoi bruni, che essendo
snelli si muovevano più facilmente dei nostri - grossi e lenti - tra
gli alberi e lungo i fìlari, e procedevano a passo spedito come gli
asini, dei quali avevano il colore. Quegli uomini, solitari e
taciturni, abituati a parlare più con le loro bestie che fra loro,
indossavano pantaloni di pelle di diavolo e grandi giacche della
stessa stoffa, o di velluto marrone a coste, che siccome servivano
anche come cappotto, erano lunghe e pesanti. Ai piedi, come nei tempi
antichi, portavano quasi tutti ciocie di cuoio naturale con alti
calzari che arrivavano appena sotto il ginocchio.
Le donne, che invece a Galluccio scendevano solo la domenica per il
mercato, indossavano tutte il caratteristico costume ciociaro,
comprese le ciocie, con grosse calze di lana bianca fatte a mano.
Qualcuna, al posto delle ciocie, portava pesanti scarpe di cuoio, con
legacci dello stesso materiale e il fondo doppio, segnato intorno da
una fila di chiodi a testa alta, simili a quelli usati dai maniscalchi
per ferrare i cavalli. Come gli uomini, anche le donne erano forti e
sane, dal bel viso aperto e grandi occhi chiari. Avevano lunghe trecce
nere legate dietro la nuca, ed erano capaci di portare grossi cesti
pieni ed altri grossi pesi in testa, almeno quanto i loro uomini ne
portavano in spalla.
Gli usi e i costumi dei caminesi, ad eccezione che per le ciocie,
erano in parte gli stessi di noi gallucciani. E così anche il
dialetto, che conservava addirittura delle parole latine, come per
esempio "sartània" (sartago), che significava padella. Altre, invece,
erano proprie dell'uno o dell'altro paese, come il "crai" (cras, crai
latino) dei caminesi che stava per "domani", mentre noi a Galluccio
dicevamo "rimani", come a Napoli.
Forse anche per questo, fra noi e i caminesi c'erano stati sempre
buoni rapporti, e quando capitava che d'inverno un caminese veniva
colto dal buio a Galluccio, gli davamo ospitalità. Oppure, se era
d'estate e faceva caldo, lo invitavamo a riposarsi e gli offrivamo un
bicchiere di vino fresco, prima che si accingesse a salire la
montagna.
Adesso, come tutti gli anni di questo giorno i caminesi scendevano a
Galluccio per cantarci i loro auguri per l'anno nuovo, ricevendone in
cambio frutta secca, patate, castagne e noci, che essi lassù non
avevano e che li avrebbero aiutati a superare alla meno peggio il
lungo inverno.
Quando arrivavano a Mieli, che trovavano sulla loro strada per primo,
era appena giorno, ma nelle case la gente era in piedi da un pezzo e
molti, che avevano già fatto colazione coi crespiegli caldi, si
mettevano alla finestra in attesa di sentire i primi canti.
I "santosilvestrari" - come noi chiamavamo i cantori -andavano in giro
in due, ed oltre agli strumenti musicali - una vecchia fisarmonica od
un piffero, più un triangolo di ferro con cui si ritmava
l'accompagnamento — portavano un sacco in cui raccoglievano le offerte
in natura della gente. Dei due, uno suonava la fisarmonica o il
piffero, e l'altro — quello con più voce — cantava, sottolineando i
passaggi più significativi della canzone col ritmare frenetico di
un'astina nel triangolo. Qualche volta, invece, i due cantavano
entrambi, chi la strofe e chi il ritornello.
Il canto, antichissimo, invocando San Silvestro Papa di cui ricorreva
appunto la festa, augurava al padrone della casa davanti alla quale ci
si era fermati, un nuovo anno portatore di ogni bene, come il poter
fare un figlio cavaliere ed un altro cardinale, oltre che avere da Dio
una lunga vita. Infatti il canto diceva:
Santo Soleviesto co' le chiavi d'oro,
ch’a Roma te sapietti governare,
governa stu palazzo a gliu padrone,
cent'anni assieme pozzammo campa'.
Buoni e buonanno,
Dio ve manda buono Capuranno.
Padrone della casa,
facci il favore:
calaci qualche cosa a'stu panaro.
E càlacello priesto e volentieri,
puozzi fa' 'nu figlio cavaliere;
càlacello priesto e benreale,
ne puozzi fa' 'nauto cardinale.
Buoni e buonanno.
Dio ve manna buono Capuranno... |
Spesso, specie nel pomeriggio, ai cantori veniva offerto anche da
bere, cosicché parecchi, per quando veniva la sera, erano alquanto
allegri se non proprio ubriachi, e le loro voci, seppure incerte, si
facevano sempre più alte e forti. Qualcuno, poi, continuava a cantare
anche dopo che le ultime luci del giorno s'erano spente oltre la
montagna in declino a occidente, dentro il lontano mare di Circe, e il
grosso dei cantori, caricati i sacchi colmi e gli strumenti sugli
asini, stava già risalendo verso Camino...
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Note sull'autore
Antonio Seccareccia era nato a Galluccio (in
provincia di Caserta) il 22 dicembre 1920. Da ragazzo fece il
contadino; giovanissimo partì carabiniere; poi diventò libraio.
É morto il 20 maggio 1997. «Sono stato libraio perché amo i
libri quanto ho amato e amo ancora la terra»: e avrebbe voluto
tornare indietro per fare il contadino tutta la vita. I primi
versi furono Riverberi e Come il fiume (1954). Poi la sua prima
raccolta di poesie, Viaggio nel sud, la presentò Caproni nel
1959. Giacomo Debenedetti lo premiò con il "Lerici". Le isolane
(quattro racconti lunghi) vollero stamparlo Romano Bilenchi e
Mario Luzi (1960): due anni dopo il libro fu pubblicato in
lingua spagnola e ne fu tratto un film. La memoria ferita (1992
e 1997) fa il punto del suo itinerario esistenziale e poetico,
dalla memoria ferita della terra e della famiglia all'impegno
civile, fino al corteggiamento della morte con cui il poeta si
misura in un colloquio serrato e struggente, negli stessi anni
in cui lavorava e limava la prosa di questo Partenza da un
mattino freddo.
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