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Rocca d'Evandro
II - Il Cinquecento
Si era già accennato
nel precedente capitolo alla perdita della giurisdizione civile sulla
Rocca da parte di Montecassino; si può aggiungere su questo punto, per una
più completa documentazione, che nel 1414 ne era divenuto signore Giovanni
di Frasso, al quale il 9 febbraio di quell'anno Giovanna II di Napoli
raccomandava che il clero, l'università e gli uomini del luogo, in quanto
«de abbatia Casinensi», rendessero a Montecassino la sacra e gli altri
diritti dovuti. Inoltre nell'anno 1416, il 28 maggio, il medesimo milite
Giovanni, qui detto Giovannuccio Bosco de Frassis, cittadino di S.
Germano, ciambellano e fedele di re Ladislao, nonché signore di Rocca di
Vandra e Rocca d'Albano nel Molise, vendeva a Montecassino la seconda
delle due rocche ora menzionate. Nel 1431 avevano il dominio del luogo
Cola degli Orsini e Maria di Marzano, conti di Manoppello, che alla data
suesposta donavano a Ciccio (sic) Lenbi loro fedele, dei terreni posti «
in castro nostro Rocche Bantre de provincia terre laboris». Più tardi,
nel 1484, il luogo venne in possesso di Federico di Monforte, il quale
nell'invasione del regno di Napoli dell'anno 1500, passò dalla parte dei
Francesi. Per conseguenza i suoi beni furono devoluti alla corte regia di
Napoli, ancora aragonese. Ettore Fieramosca, conte di Mignano, era rimasto
fedele a Federico d'Aragona, che gli aveva trasmesso il dominio su Rocca
d'Evandro e Camino. Passato poi al servizio di Consalvo di Cordoba,
combattè contro i Francesi, assieme al fratello Guido, e si distinse
nell'espugnazione di Capua. Il 23 ottobre 1503 fu dato l'assalto al
castello di Rocca d'Evandro, e forse vi prese parte lo stesso Ettore. Il
luogo era difeso dal Monforte, che confidava nella sua inespugnabilità, ma
vi era troppa disparità di forze, di più gli attaccanti disponevano anche
di artiglieria. Il Monforte dovè quindi venire a patti, e lasciare la
Rocca. Questa con diploma reale da Medina del Campo, del 28 ottobre 1504,
fu restituita a Ettore, per i servigi prestati in guerra, assieme a Camino
e Camigliano, oltre l'avito possesso di Mignano. La concessione regia era
esplicita, comprensiva pure degli eredi, ma non durò molto in quanto nel
trattato di Blois tra Francia e Spagna, dell'anno 1504, fu convenuto che
dovevano essere reintegrati i baroni che avevano combattuto dalla parte
francese, Ettore fu pertanto obbligato a cedere al Monforte la Rocca con
Camino, mianendogli il solo possesso di Mignano con Acquara e Camigliano,
ma non si adattò agevolmente a questa
menomazione, e subì pure un periodo di prigionia o di
relegazione, prima di addivenire, nel 1507, alla retrocessione suddetta.
Il re tuttavia si preoccupò di farlo indennizzare almeno parzialmente e vi
fu provveduto da parte del viceré del tempo con la pensione di seicento
ducati annui, tratti dai redditi fiscali di Civitella d'Abruzzo, ma tale
somma non compensava le rendite del territorio ceduto, e il prestigio
della giurisdizione sui vassalli. Ettore rimase sempre molto mal disposto
per il resto della sua vita, e dopo la sua morte prematura avvenuta nel
1515 a Valladolid, dove fu sepolto, gli successe il fratello Guido,
anch'egli valoroso cavaliere, che nel 1523 era governatore di Capitanata,
con residenza a Lucera. Nel 1528 riebbe anzi Rocca d'Evandro per essersi
distinto nella difesa di Manfredonia in seguito all'invasione francese,
non riuscita, di tale anno, in occasione della quale Federico Monforte
era tornato alle sue antiche preferenze galliche. In questo episodio
bellico morì nella battaglia navale di Capo d'Orso presso Salerno, Cesare
Fieramosca, che era particolarmente caro a Carlo V, e che nel 1517 lo
aveva nominato maresciallo o maestro di campo degli eserciti del
vicereame. Anche Alfonso, il minore dei quattro fratelli guerrieri, morì
militando, in Lombardia, nel 1526. Guido morì nel 1531, non lasciando
che una figlia, e fu sepolto a Montecassino nella tomba monumentale
tuttora esistente, ma rifatta in gran parte dopo la guerra. La vedova
Isabella Castriota lo seguì nel sepolcro nel 1541. Tutti gli altri
fratelli essendo già morti, il titolo comitale, limitato solo a Mignano,
fu potuto conseguire pienamente nel 1557 dai figli di Porzia, sorella dei
defunti guerrieri che non avevano lasciato prole, così i Leognano
aggiunsero al cognome originario quello di Fieramosca. Si è avuto
occasione di ricordare, a proposito di S. Pietro Infine, che Ettore
Fieramosca Leognano, ebbe poco dopo la metà del Cinquecento, una
controversia con Montecassino, per questioni di confini e di pascoli, che
fu risolta a favore del monastero. Un documento dell'Archivio dell'anno
1512, concernente la remissione di un tributo di trenta ducati annui che
l'Università di Camino si era impegnata in antecedenza a pagare al
Monforte, ma che alla data suesposta non era in grado di soddisfare,
permette di conoscere un nome assai illustre collegato con Rocca
d’Evandro. Fu chiesta infatti una conferma di questa remissione d'imposta,
ch'era stata ridotta da trenta a tre ducati, al nuovo signore del luogo.
Si trattava nientemeno di Vittoria Colonna, marchesa di Pescara, che dalla
sua residenza del castello d'Ischia confermò tale concessione. L'anno di
tale conferma rimane incerto tra il 1533 e il 1543, perché vi è una lacuna
proprio in corrispondenza della terza cifra, a causa della piegatura
logora del documento. Ma non si può uscire dalle date ora espresse, in
quanto Guido Fieramosca morì, come si è visto, nel 1531, e allora si
spiegherebbe la richiesta dell'Università, nel 1533, dopo che la Colonna
era subentrata nel dominio di Rocca d'Evandro e Camino. L'ultima data
possibile è il 1543, in quanto nel 1547 la marchesa morì. Vale la pena di
trascrivere qualche frase della conferma in questione: «Nos Vittoria
Colunna marchio(nissa) Piscariae et Castrorum Rocce Evandri et Camini
utilis domina supra scripta omnia et singula confirmamus quatenus opus
esse denuo confirmari...et confirmatione expediri mandamus nostra propria
mami subscripta et nostri soliti sigilli impressione munita. La Marchesa
de Pescara». Questa dichiarazione finale costituisce la firma, come
risulta da altre lettere della Colonna conservate in Archivio. Inoltre
all'ultima pagina del documento in parola vi è una ulteriore conferma del
1547, ove la Colonna si firma, in quanto vedova dal 1525, « Infelicissimo
Marchese (sic) del Vasto». Poiché, come si è già accennato, il 1547 è
l'anno di morte della Colonna, è probabile che si tratti di uno dei suoi
ultimi atti di governo nella zona, se non addirittura l'ultimo. Il
possesso di Rocca d'Evandro passò in conseguenza ad altri titolari, dei
quali troviamo talvolta menzione nelle notizie ecclesiastiche locali, con
l'avvertenza che i rapporti tra Montecassino, memore dell'antico dominio,
e i successivi fruitori, non furono eccessivamente cordiali, salvo forse
nel tardo Settecento, come si vedrà a suo luogo. Quello che deve notarsi
su questo punto è l'esclusione completa dei signori locali in fatto di
amministrazione ecclesiastica. Non avevano neppure il diritto di
presentazione ai benefici del luogo, la cui collazione spettava
esclusivamente a Montecassino. Di un loro patronato si parlerà in seguito
per la sola cappella presso il palazzo o rocca comitale. Del resto la
piena giurisdizione di Montecassino sulle chiese di Rocca d'Evandro aveva
avuto conferma fino dal 1197, da parte di Celestino III, in seguito a una
controversia col vescovo di Teano, per la quale fece da arbitro Anselmo
arcivescovo di Napoli. Con il passaggio di Montecassino alla congregazione
di S. Giustina, avvenuto come si è già più volte notato nel 1504, comincia
la serie delle frequenti visite da parte degli abati del tempo, più
attenti ed esigenti per tutto quanto concerneva la disciplina del clero, e
l'osservanza delle leggi ecclesiastiche da parte del popolo. Così nel 1512
il priore di Montecassino, don Antonio di Genova, delegato dell'abate don
Ignazio Squarcialupi di Firenze, si notino le provenienze dal nord e
centro Italia, visitò la chiesa di S. Maria, ove trovò l'arciprete Antonio
Cubelli con altri due canonici. Nel 1555 vengono elencate le chiese del
luogo, anzitutto quelle di S. Maria, che, come si vedrà più oltre, aveva
pure il titolo di S. Antonino Martire. Altre chiese nel castello erano
quelle di S. M. Maddalena, ma deve intendersi S. Margherita, quella
dell'ospizio od ospedale di S. Antonio Abate, la cappella di S. Sebastiano
presso e fuori il castello, la chiesa rurale di S. Croce. Oltre
l'arciprete d. Nicola Ricci (o Riccio), che venne trovato in regola,
dimoravano sul posto altri quattro sacerdoti. Varie ingiunzioni vennero
fatte ai sacerdoti e chierici, soprattutto per l'obbligo della tonsura e
della veste lunga, per il divieto di portare armi, nonché per l’obbedienza
dovuta all'arciprete, oltre alle disposizioni da inquadrarsi nello spirito
della legislazione tridentina, allora in formazione. Nella visita del 1561
si presentò anche l'arciprete di Cucuruzzo col sindaco del luogo, per il
quale tuttavia esiste una documentazione separata da quella di Rocca
d'Evandro. In questa visita del 1561 fu prescritto ai sacerdoti di
assumere un maestro di canto, per una migliore celebrazione della Messa e
dell'ufficio corale". Nel 1565 i visitatori trovarono la chiesa sporca e
mal tenuta; le reliquie erano custodite in maniera poco degna, pure il
battistero difettava di pulizia. Di qui una severa reprimenda per
togliere tali sconvenienze. Nel 1571 la situazione non risultò migliorata.
La chiesa matrice fu trovata scoperta, ma si suppone che il tetto doveva
essere sconnesso o caduto solo in parte; anche la chiesa di S. Margherita
risultò addirittura scoperchiata e immonda, mentre l'ospedale di S.
Antonio aveva bisogno di riparazioni. Per l'occasione, a parte i
provvedimenti per il riassetto delle chiese, fu imposto all'arciprete e al
Capitolo, « ut quotidie dicant officium divinum in choro, atque cantent
Missas et Vesperas in diebus festivis de praecepto ». Nel 1573 la
situazione era migliorata in quanto i visitatori trovarono «sacramenta
bene et optime collocata». Era arciprete d. Giovanni di Zillo con altri
quattro sacerdoti. I sindaci ebbero lodi per il clero, pur chiedendo
maggior impegno nell'amministrazione dei sacramenti. Per conseguenza fu
emanato un decreto col quale si stabiliva che i sacramenti fossero
amministrati non appena se ne fosse fatta richiesta. Nel 1576, fatto
questo veramente degno di rilievo, si presentò per ricevere i visitatori,
assieme al clero e al popolo l'«Ill.mus d.nus Antonius de Bologna ipsius
castri baro, vir equidem sagax et prudens et omni laude dignus». Si tratta
di uno dei rari casi nei quali avveniva un incontro col padrone del luogo,
che, del resto, nella visita non aveva alcuna parte effettiva.
Un'ospitalità di riguardo venne offerta nel 1589 e nel 1590 dal
«magnifico» Guido Franchi «artium medicinae doctoris», nella cui casa
l'abate «hylari vultu receptus fuit». Verso la fine del secolo, nel 1592,
la visita è limitata alla sola chiesa principale di S. Maria, che aveva la
cappella del Rosario con confratelli, e quella della Madonna delle Grazie,
pure con confratelli. A tale anno oltre l'arciprete d. Pietro Framundo vi
erano altri sei sacerdoti. I sindaci, erano quattro, espressero aperte
lodi sui medesimi: «sacerdotes sanctam vitam ducere, bonis moribus
pollere, populo satisfacere circa celebrationem missarum». La effettiva
situazione delle chiese, specialmente di quelle abitualmente fuori delle
visite ufficiali, sarà messa in luce in occasione degli inventari
analitici, verso la fine del Seicento, e quindi formerà oggetto del
capitolo successivo.
A. Pantoni,
Roccadevandro, II, «Bollettino Diocesano» di Montecassino,
Anno XXXIV, 4/1979, pp 86-92.
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