Testimonianze
Egidio
Baccilieri
Il diario di un
sopravvissuto al bombardamento della stazione di Rocca d'Evandro-S.
Vittore avvenuto l'11 Settembre 1943. In questo stesso diario,
pubblicato per la prima volta dal trimestrale del C.D.S.C.
"Studi Cassinati" nell'Ottobre del
2006, l'autore racconta come si trovò per caso, durante i
suoi spostamenti sul nostro territorio, ad
assistere ai festeggiamenti in onore di S. Maria di
Piedigrotta a Mortola e dell'accoglienza ricevuta dagli
abitanti di Cocuruzzo, incontrati il 10 settembre 1943.
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“Modena, li 5 agosto 1943
In questa data che io scrivo fui
richiamato alle armi al Distretto Militare di Modena insieme ad
altri 12 amici del mio Paese¹,
destinati alla Caserma XX Settembre, dove rimanemmo diciotto
giorni consecutivi, e precisamente fino al 23 dello stesso mese.
Per me non furono
molto tristi, perché per la vicinanza qualche volta mi era
possibile recarmi a casa per vedere la mia cara famiglia; ma
purtroppo quelle passeggiatine ben
presto ebbero fine, perché giunse il momento di rinunciare ed abbandonare il |
Egidio Baccilieri
1906-1998
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mio amato paese e dover partire per
destinazione ignota.
Fu quindi lo stesso giorno del 23
agosto, alle ore 19.45 la dolorosa partenza da Modena. Arrivati alla
stazione fummo caricati su un convoglio di vagoni bestiame; eravamo in
1350 circa; dopo un lunghissimo viaggio, siamo giunti in un piccolo
paese, chiamato Mignano, in provincia di Napoli²;
erano le ore 12 del giorno 25; là giunti ci fu distribuito il corredo:
il giorno dopo, 26, riposo, ed il 27, alle ore 6 del mattino partenza
a piedi fra pianure e montagne; dopo 30 Km. finalmente arrivammo al
posto assegnato³.
Era una zona isolata, vicina ad un
grande fiume chiamato Garigliano, circondato da alte montagne.
Un venerdì, verso le ore 13,30, ordinarono di costruire le tende;
poi riposo assoluto per sabato e domenica. Lunedì 30, si iniziò il
lavoro scavando fosse anticarro, camminamenti, trincee, postazioni da
cannoni e mitragliatrici, e così si continuò fino al giorno otto
settembre.
Quel famoso giorno, come al solito a
mezzogiorno, nel ritornare all’accampamento per consumare il pasto,
poco distante, sopra ad una piccola altura, sentii dei canti ed inni
religiosi; mi misi in ascolto ed incuriosito mi incamminai in quella
direzione. Dopo circa 10 minuti giunsi lì dove sorgeva una piccola
chiesetta circondata da un basso muro di recinzione. Per me fu una
meravigliosa sorpresa nel vedere un afflusso di gente, soprattutto
donne e bambini, che partivano in ginocchio dal piccolo prato per
recarsi nell’interno della Chiesa, dove, sopra ad un enorme
piedistallo, vi era collocata una bellissima Statua chiamata Maria SS.
di Piedigrotta: lì depositavano doni in denaro pregando per i loro
congiunti che si trovavano sotto le armi e chiedendo di ottenere la
grazia per il loro ritorno.
Mi commossi molto e non posso negare
che qualche lagrima mi usciva dagli occhi; mi misi in un angolo ed
acquistai una fotografia; la deposi nel portafoglio con intenzione di
portarmela a casa come caro ricordo. Restai ad assistere per circa
mezz’ora, poi uscii e ritornai all’accampamento. Consumai in fretta un
misero pasto recandomi poi al posto di lavoro insieme ai miei amici
raccontando della mia avventura.
Alla sera, circa alle ore ventuno,
mentre stavamo conversando sotto le tende giunse da lontano un
mormorio di voci che invocavano la pace, la pace; quasi pazzi di gioia
ci dirigemmo in quella direzione. Giunti vicino al fiume dove dalla
parte opposta si trovavano altri colleghi, pure loro molto allegri, ci
comunicarono che era giunta la notizia dell’armistizio. Ci emozionammo
e ritornammo contenti all’accampamento; fino alla mezzanotte fu per
noi una grande allegria per festeggiare la gradita notizia. Il mattino
seguente i nostri superiori fecero l’adunata e, contenti ma anche
preoccupati, ordinarono di non abbandonare i propri posti e restare in
attesa di ordini superiori. Ci comunicarono in seguito che non era
possibile l’arrivo dei viveri in quanto il camion del servizio era
stato sequestrato dalle truppe tedesche. Sorpresi e preoccupati da
tale notizia, ma rasse-gnati, rimanemmo al nostro posto.
Proprio quel giorno (9 settembre) la
gente del luogo festeggiava quell’Immagine che il giorno precedente
avevo visto in quella piccola chiesetta, e la trasportava giù per la
montagna per raggiungere la vallata sottostante formando una
lunghissima processione che ebbe la durata di quasi tutta la giornata:
fu veramente uno spettacolo meraviglioso e di commozione in quanto si
diceva che da settanta anni non era stata spostata da quel luogo
sacro. Noi tutti partecipammo insieme a quella povera gente piena di
dolore e di sofferenze convinti di adempiere ad un sacro dovere.
Il mattino seguente, trovandoci senza mangiare, fu deciso di
recarci nel paese chiamato Cucuruzzo (Cocuruzzo, ndr) sopra ad una grande montagna
distante 10 Km per procurarci qualche cosa da mangiare; così si formò
una squadra di nove persone, io compreso, e partimmo. Giunti sul luogo
tutti ci diedero qualche cosa secondo le loro possibilità trattandoci
con coscienza come figli e fratelli. Si fece una buona raccolta e
tornammo all’accampamento alle ore 14. Si fece baldoria mangiando
tutti insieme la nostra abbondante raccolta. Verso sera fu annunciato
di togliere le tende e partire ognuno per il proprio destino. Subito
ci mettemmo all’opera e dopo poco tempo terminammo di preparare il
nostro piccolo corredo. All’imbrunire fu deciso di partire. Dopo circa
3 Km tra sentieri rocciosi in quella zona sconosciuta e al buio non fu
più possibile continuare. Arrivati vicino ad una casetta dove esisteva
un pagliaio abbiamo fatto tappa chiedendo al proprietario il permesso
di poterci fermare lì; quello cortesemente ce lo concesse e così
riposammo.
Alle 5 del mattino seguente abbiamo
ripreso il nostro lungo e faticoso cammino, chiedendo a qualcuno che
incontravamo sulla strada indicazioni per arrivare alla stazione
ferroviaria. Continuammo a percorrere scorciatoie rocciose e nascoste
per non farci sorprendere dai tedeschi, dopo circa 30 Km di marcia
finalmente riuscimmo ad arrivare in quella famosa ed indimenticabile
stazione del paese che era chiamato Rocca d’Evandro: erano le ore 12
e là trovammo i nostri Ufficiali che ci consigliarono di nasconderci
dalla parte opposta della ferrovia distante un centinaio di metri,
dove c’era una vigna con alberi per poi dare l’assalto al treno appena
arrivava. Seguendo il consiglio suggerito ci collocammo al posto
indicato, e vicino ad un grosso albero abbiamo deposto le nostre
valigie e seduti, formando un cerchio, ansiosi e desiderosi di tornare
presto alle nostre case, con pazienza siamo rimasti in attesa
conversando di buon umore.
Alle ore 14.45 fummo sorpresi da uno
strano rumore lontano proveniente dalla direzione di Napoli;
immediatamente si presentò una squadriglia composta da 38 apparecchi
da bombardamento a bassa quota diretta verso di noi, subito incominciò
a sparare la contraerea tedesca che si trovava lungo la ferrovia. In quell’istante noi tutti spaventati cercammo di metterci al sicuro
nascondendoci ognuno dove credeva opportuno; ma fu un attimo che
cominciò a cadere una pioggia di bombe di grosso calibro per un tratto
di circa un chilometro; io non ricordo cosa avvenne in quel fatale
momento: solo dopo pochi istanti mi accorsi di essere rimasto
seppellito con il capo fino a metà corpo; non riuscivo a respirare;
con molta fatica riuscii ad uscire da quella situazione trovandomi fra
le gambe di un caro amico morto e tutto fracassato. Lentamente mi
alzai barcollando dirigendomi verso la stazione, ma dopo pochi passi
persi i sensi cadendo a terra. In quello stato rimasi circa una
mezzoretta. Quando mi svegliai mi sembrava di sognare, ma in seguito
constatai che era realtà, nel vedere con grande sorpresa tutto intorno
alberi che bruciavano e profonde buche ricoperte da qualche morto.
Rendendomi conto di quella situazione e trovandomi disperato in mezzo
a quel campo di sterminio e di morte, incominciai a chiamare aiuto ma
nessuno poteva soccorrermi. Così trascorse molto tempo, quando
finalmente sentii delle grida da me conosciute, cercai di muovermi ma
inutilmente; rimasi immobile perché non mi era possibile alzarmi.
Quando poi quella voce si avvicinò riconobbi un mio caro amico che,
disperato pure lui, cercò alla meglio di aiutarmi mettendomi degli
indumenti, che aveva potuto rintracciare, sotto il capo assicurandomi
che sarebbe andato a cercare soccorso e che sarebbe venuto a
prendermi. Trascorse ancora molto tempo finché mi raggiunse insieme ad
Ufficiali e ferrovieri iniziando il trasporto dei feriti, giunse il
mio turno e mi caricarono sopra ad un camion tedesco che attendeva ad
un incrocio a cinquecento metri dalla stazione. Le macchine tedesche
erano due e noi eravamo una trentina circa di feriti; con molta fretta
fu data la partenza in quanto quel posto era molto pericoloso.
Dopo undici chilometri arrivammo a Cassino e ci
collocarono in una grande sala dell’Ospedale*
dove rimanemmo per poco tempo perché non era possibile il ricovero in
quanto c’erano feriti tedeschi. In quella sosta eravamo solo in otto
rimasti vivi, tutti gli altri purtroppo erano morti in quella sala. In
seguito ci caricarono sopra ad un altro camion italiano e ci
trasferirono all’Ospedale di Pontecorvo distante 17 chilometri da
Cassino.
Erano le ore 20.30 del giorno 11
settembre quando mi portarono in camera operatoria: mi estrassero due
schegge facendomi molto male; poi mi rimisero a letto in una piccola
cameretta insieme ad un altro sventurato da me sconosciuto. Il mattino
seguente vennero a farci la visita e dopo aver controllato le nostre
ferite, il Professore annunciò che nessuna speranza esisteva per noi
due di poter guarire.
Mai come in quel momento sono rimasto
sfiduciato e disperato per le mie gravi condizioni: non volevo credere
che fosse giunto il momento estremo della mia vita. Poco dopo mi
calmai e col pensiero rivolto alla mia famiglia cercai di rassegnarmi
sperando solo in un miracolo.
Trascorsi una dolorosa e lunghissima notte senza sonno travolto dai
pensieri; inoltre il collega vicino si lamentava, pregando
l’infermiera di turno di riferire al Professore di voler essere
immediatamente operato perché si sentiva molto male, ma quello non
acconsentiva, perciò desiderava morire presto per non più soffrire,
dopo due giorni morì. Così rimasto solo ancora più desolato
incominciai a credere che fosse giunta la mia fine e rimasi in attesa
del fatale destino.
Il terzo giorno mi trasferirono in un altro reparto insieme ad
altri feriti sconosciuti. Trascorsero otto giorni quando parlando con
qualcuno mi riferirono che in quell’Ospedale era ricoverato un mio
collega paesano: chiesi subito il trasferimento che mi fu concesso; là
giunto riconobbi immediatamente il mio amico e piangendo tutti e due
parlammo della nostra sventura.
Così passarono 50 penosi e lunghissimi
giorni soffrendo terribilmente per il male ed anche per la fame,
sempre sotto il pericolo dei bombardamenti. Nel frattempo insieme ad
un altro amico progettavamo di fuggire visto che il quel periodo
eravamo in via di miglioramento; ma dovendo affrontare seicento
chilometri circa in condizioni non del tutto abili a camminare e nel
timore di esporci al grande pericolo che si poteva incontrare,
rinunciammo alla nostra decisione e rimanemmo al nostro posto
rassegnati a seguire il nostro destino.
Il giorno 29 del mese di ottobre in
tutti i reparti venne fatto un controllo per trasferire all’Ospedale
‘Celio’ di Roma tutti coloro che si trovavano in via di guarigione.
Furono scelte quattro persone, io compreso e ci comunicarono che il
Comando delle truppe tedesche minacciava di prelevare i feriti in
buone condizioni e trasportarli con loro in Germania. Per tale motivo
il Professore decise di trasferirci per il bene nostro onde evitare
brutte sorprese.
Il giorno dopo alle cinque del mattino
su un camion tedesco si partì: era una brutta giornata con il cielo
nuvoloso e quasi tutto coperto da apparecchi che bombardavano in
direzione di Gaeta. Noi, rifugiati in un angolo, con tanta paura
pregavamo che il nostro viaggio proseguisse senza inconvenienti,
infine le nostre preghiere furono esaudite: tutto procedette per il
meglio ed arrivammo a destinazione verso mezzogiorno. Fui assegnato in
un grande reparto di sconosciuti senza più rivedere i colleghi di
viaggio, trascorrendo in quel luogo nove lunghissimi giorni; poi,
finalmente, mi mandarono in convalescenza per quaranta giorni.
È molto difficile ora descrivere il mio
pericoloso e disperato viaggio con i molti ostacoli che dovetti
affrontare: ora mi limiterò solamente a raccontare i più importanti.
Uscito dall’Ospedale di Roma, verso
sera giunsi alla stazione, ma trovandola deserta e non sapendo da che
parte rivolgermi mi sistemai sopra un grande mucchio di carta che si
trovava sotto la tettoia della stazione. Dopo pochi istanti fui
sorpreso da due Guardie Repubblicane che mi dissero che in quel posto
non si poteva rimanere perché era molto pericoloso e che la partenza
del treno era alle ore sette del mattino seguente. Sorpreso mi alzai;
poi mi chiesero i documenti e gentilmente mi indicarono un luogo dove
si trovavano degli emigranti. Là giunto trovai molte persone tra cui
donne e bambini; così passai l’intera notte. Al mattino mi recai alla
stazione e partii. Il viaggio fu disperato in quanto trascorsi pochi
chilometri il treno doveva fermarsi per evitare bombardamenti.
Finalmente alle tre del pomeriggio si arrivò nella città di Terni: da
quella stazione non era più possibile proseguire, a causa dei
bombardamenti tutto era ridotto in macerie. Allora a piedi cercai un
riparo senza sapere da che parte rivolgermi, finché fatti pochi passi
incontrai dei tedeschi che mi condussero in una Caserma dove rimasi
rinchiuso per tutta la notte.
Il giorno dopo mi fecero uscire;
arrivai davanti ad una Chiesa che si trovava in un incrocio; su quella
strada transitava una infinità di automezzi armati e truppe che non
finivano mai. Ero sempre in attesa di un mezzo di fortuna; in seguito
alle mie richieste un camioncino si fermò e con sorpresa mi trovai
davanti dei tedeschi appartenenti alle famose SS. Inferociti e con
parole incomprensibili puntarono i mitra minacciando di fucilarmi;
rimasi immobile e non pronunciai parola spostandomi vicino al muro.
Vedendomi in che condizioni pietose mi trovavo (forse in quelle
cattive persone esisteva anche un po’ di comprensione) rimasero per
qualche istante a guardarmi, poi se ne andarono. Anche quella volta
pensai che non era ancora giunto il momento di andarmene per sempre
all’altro mondo: fu per me un vero miracolo. Trascorse ancora poco
tempo quando passò una colonna di corriere piene di Repubblicani; una
si fermò e mi concessero un passaggio: facevano un servizio di linea
con sosta a Riccione per poi proseguire verso la Città di Padova.
Nella tarda serata si arrivò a Riccione dove mi dettero alloggio con
loro e per la prima volta dopo tanto tempo ebbi la soddisfazione di
mangiare e riposare abbastanza bene.
Il giorno dopo alle sei del mattino si
doveva partire, ma a causa del cattivo tempo si rimandò a verso le ore
dieci. Si fece un’abbondante colazione, poi si partì e al pomeriggio
alle ore quattordici circa arrivai a Ferrara; a mia richiesta la
corriera si fermò; scesi e ringraziai quella buona gente che con me
era stata molto cortese e mi misi in cammino per raggiungere la
stazione. Percorsi varie vie della città e finalmente arrivai; mi
sistemai sul treno e partii contento e desideroso di raggiungere
presto il mio Paese.
Erano le ore venti del giorno otto
Novembre quando, finalmente dopo tante sofferenze, ebbi la grande
gioia e soddisfazione di arrivare a casa e rivedere ancora la mia
amata famiglia. Mai come in quel momento sono stato così felice; quasi
non credevo di aver raggiunto quel desiderato traguardo quando non
avevo più nessuna speranza di sopravvivere; non avrei creduto di
meritarmi tanta fortuna.
Qui ha termine il mio breve e doloroso racconto e sono tanto
contento di trovarmi insieme ai miei cari da non poter descrivere la
mia commozione. Ma purtroppo mi è rimasto l’amaro ricordo della sorte
dei miei cari amici e del loro crudele destino perché non hanno avuto
la grande fortuna di ritornare, lasciando per sempre i loro cari
inconsolabili che mai più potranno dimenticare”.
Egidio Baccilieri
¹
= Finale Emilia.
²
=
È Mignano Monte Lungo, oggi in provincia di Caserta.
³
=
Questi soldati furono aggregati alle truppe tedesche che stavano
apprestando le linee difensive.
* = Era effettivamente un ospedale tedesco, allestito nei
locali del Liceo Ginnasio «G. Carducci» di
Cassino.
Diario gentilmente concesso dalle
sorelle Baccilieri, figlie dell'autore.
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